Non c’è privilegio più grande di osservare un artista all’opera. Hayao Miyazaki e l’airone, il documentario diretto da Kaku Arakawa, in sala con Lucky Red dal 25 al 27 novembre, concede questo privilegio. Ed è un regalo grandissimo. Per i fan dello Studio Ghibli e non solo.
Miyazaki al lavoro ricorda i più grandi. E alcuni li cita pure. Dante e la selva oscura, Van Gogh e quell’orecchio tranciato di netto “per scoperchiare il cervello e portare a galla le idee”. Ho la testa rotta, dice Miyazaki, che nel suo ultimo film – Il ragazzo e l’airone – si è guardato dentro come mai prima di allora, donando al mondo una cosmogonia universale della creazione e uno sguardo, assolutamente privato, alla sua vita.
Nelle parole del Maestro dell’animazione giapponese, impossibile non riconoscere anche Fellini. “Racconta bugie ogni giorno – racconta il suo storico produttore Toshio Suzuki – è il suo hobby”. A colpire, infatti, non è tanto ciò che Miyazaki rivela, o finge di rivelare. In Hayao Miyazaki e l’airone, Arakawa, attraverso un pedinamento durato oltre sette anni, entra nella quotidianità dell’artista, carpendo momenti privati di estrema verità, la stessa che ritroviamo, camuffata sotto forma d’arte, nascosta tra simboli e colori, nella sua ultima grande opera. “Il suo capolavoro”, garantisce Suzuki.
Il documentario è un dietro le quinte della creazione de Il Ragazzo e l’airone, e funge da appendice irrinunciabile per la comprensione dell’opera. Non solo perché ne rivela le metafore, le architetture più complesse a uno sguardo impreparato, ma perché è un controcampo irrinunciabile su un artista che infonde vita in ogni immagine, e per farlo sembra costantemente mettere in gioco la propria. È una faccenda di vita e di morte. E non se ne scappa. “Sono in trappola – dice Miyazaki – ho bisogno sempre di sentirmi alle strette”. La morte è la vera protagonista degli ultimi anni di Miyazaki, dedicati interamente a Il ragazzo e l’airone.
Tutto ha inizio dall’annuncio del ritiro dalle scene. È il 2013 e Miyazaki non lo sa, ma mancano 3598 giorni alla conclusione del suo ultimo film, come ci comunica a schermo il documentario con un montaggio serratissimo. Il conto alla rovescia non lascia scampo: qui si gioca la vita e la morte, sembra ribadire Arakawa. “Ho scritto una cosetta”, mostra Miyazaki in camera agitando la bozza di una promessa. È il 2016. Poi, nel 2018, la morte di Takahata, l’amico e rivale di sempre. È qui che cambia tutto: Miyazaki non può fermarsi, deve tornare al lavoro. Per lui, “Paku-San”, Takahata.
Il loro rapporto è il vero protagonista di questo documentario. Miyazaki sogna solo lui, “Paku-San”. Lo vede nella tempesta, lo sgrida quando perde una matita, incolpandolo di fargli i dispetti. Arakawa, in un pedinamento che siamo certi sarà stato difficilissimo – Se Takahata è la tempesta nel suo insieme, Miyazaki ne è almeno un tuono -, mostra il discorso del maestro al funerale dell’amico. Miyazaki si commuove, noi con lui. È un momento incredibile. “L’anima di Paku mi sta tormentando”. Nel racconto del loro primo incontro, Toshio Suzuki ci vede Totoro. La vita di Miyazaki ha preso di volta in volta le forme della sua arte e mai come ne Il ragazzo e l’airone ne abbiamo avuto prova più concreta. Il montaggio di Arakawa è una sorpresa continua e seguendo le forme del discorso di Miyazaki – sempre più perso nella sua fantasia, intrappolato nella sua creazione – viviamo l’avventura dell’arte, un viaggio entusiasmante fatto di continue morti e rinascite. “Sono bloccato nel mondo che ho creato”, spiega l’artista mentre la scrivania si riempie di fogli strappati, rivisti, lanciati nel vuoto dopo giorni di lavoro. È un processo creativo che non crea modelli: è la vita stessa di Miyazaki, e non segue strutture che non siano ricalcate sull’incedere stesso dei sogni, scomposti e intimi. Un processo che riguarda prima di tutti lui e, come l’arte migliore, intrappola anche noi, divenendo più grande della vita stessa. “Finalmente l’ho seppellito negli storyboard”, rivela disegnando il “prozio”, personaggio mistico de Il ragazzo e l’airone, incarnazione di Takahata.
Hayao Miyazaki e l’airone è un documento prezioso. Da stringere a sé quanto il film di cui rivela i retroscena. “Sono entrato nella follia dello smarrimento – continua a ripetere Miyazaki – al confine della follia, l’unico modo per rendere interessante un film”. Si potrebbero riempire interi taccuini delle citazioni di Miyazaki, che a volte sembra giocare con lo stesso Arakawa, dandoci proprio ciò che bramiamo. Un atteggiamento pienamente felliniano, unico e speciale. D’altronde, proprio in Il ragazzo e l’airone ritroviamo le forme del sogno – ricalcate più o meno coscientemente – che Fellini inscrisse nella storia del cinema con la prima sequenza di 8 1/2.
Il lavoro di Arakawa mette insieme l’universo quotidiano di Miyazaki, perso tra le foreste – quelle della mente, ma anche quelle reali, dietro casa sua – e nel suo studio, circondato da grandi nomi dell’animazione, con cui sovente discute in cerca di un ideale di perfezione che ha pochi eguali. Un film da vedere prima e dopo Il ragazzo e l’airone. Per riscoprire il film, per capirne il reale significato, che Arakawa rivela non solo nelle parole rubate al regista, ma soprattutto in quelle non dette, taciute durante le lunghe pause sul porticato di casa, quando Miyazaki chiude gli occhi e allunga la mano, districandosi in una matassa nera di visioni.
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