“Mio fratello, mia sorella”: una famiglia a confronto con la schizofrenia

Il film di Roberto Capucci, su Netflix dall’8 ottobre è una ben strutturata storia di tragici rapporti familiari


Mio fratello, mia sorella è una ben strutturata storia di tragici rapporti familiari, che alla classica impostazione del film ‘corale’ aggiunge un tema particolare, quello della convivenza con un familiare affetto da gravi disturbi psichici, in questo caso la schizofrenia. Il film è interpretato da Alessandro Preziosi, Claudia Pandolfi, Ludovica Martino, Stella Egitto, Francesco Cavallo e Caterina Murino. Diretto da Roberto Capucci e prodotto da Marco Belardi, sarà su Netflix, che produce in associazione con Mediaset e Lotus Production, dall’8 ottobre.

Alla morte del padre, Tesla e suo fratello Nik si ritrovano, per un singolare patto successorio, sotto lo stesso tetto. In casa ci sono anche i figli di Tesla, Sebastiano, geniale violoncellista affetto da schizofrenia, e Carolina, con cui Tesla ha un rapporto conflittuale. Col tempo tutti troveranno un equilibrio, ma una serie di eventi porteranno i personaggi a fare i conti con paure e segreti, in un difficile viaggio verso il perdono e l’accettazione di sé stessi e dei propri legami.

“Parlare di schizofrenia – dice il regista – è stato delicato e interessante, ho lavorato con il professor Martinotti, presidente della Società Italiana Psichiatria, che ci ha dato l’opportunità di raccontare il disturbo facendoci entrare in un mondo incredibile, a cui ho lavorato con la sceneggiatrice Paola Mammini. Abbiamo costruito un personaggio che non esiste, diciamo ‘customizzato’, con delle caratteristiche tecniche specifiche che mano mano scrivevamo con Paola per incastrarle nella nostra storia, chiedendo poi al professore se fosse tutto coerente. A livello psichiatrico abbiamo studiato ogni reazione. Abbiamo voluto raccontare un paziente immaginario ma senza mostrare le allucinazioni, piuttosto raccontandolo come si vedrebbe dall’esterno. Inoltre parliamo della cosidetta famiglia ‘schizofrenogena’, ovvero del contesto familiare”.

“Abbiamo cercato di lavorare su un’operazione diretta – dice Cavallo, che interpreta appunto il ragazzo con il disagio  – andando in clinica per capire cosa significasse avere questo disagio, evitando macchiette, ma non c’era l’ispirazione fisica a una persona specifica, il che ci ha dato modo di essere più creativi possibile nell’inventare le sue turbe, le sue stereotipie, il suo specifico rapporto con la madre. Da questa esperienza abbiamo preso le sensazioni che la malattia comporta sia sull’interessato che sulla famiglia. Alla prima lettura del copione sembrava già che ci fosse dietro una famiglia esistente”.

“Ho approcciato questo film trovando già una donna ben destrutturata  – spiega Pandolfi – di solito ci si appoggia sui punti fermi dei personaggi mentre lei è disarmata e vive di costanti autosabotaggi. Volevamo che la famiglia fosse raccontata in maniera autentica, anche io ho ascoltato molte testimonianze di donne che sono nella stessa situazione di Tesla. Mi hanno da un lato straziato e dall’altro fatto capire quanto fossi fortunata. Roberto aveva il film dentro e una grande urgenza di raccontarlo. Mi sono affidata e lasciata andare. Mi sono vista brutta, magra, grigia, ed era tutto rispettoso, bello, giusto e corretto”.

“Non sono una persona che compatisce – dice Preziosi – e credo che il modo in cui ho interagito col personaggio di Francesco è stata una strategia di distanza. Credo che abbia molto funzionato. Le scene sono frutto di una grande empatia, alcune non erano forse nemmeno in sceneggiatura”.

“Roberto ha creato una famiglia anche tra di noi – dice Martino – se il personaggio doveva farlo Francesco ci teneva che noi partecipassimo e vedessimo queste testimonianze, andassimo anche noi in clinica. Poteva bastare una volta ma Roberto ci ha creato un legame così simbiotico che siamo entrati in totale empatia sia tra di noi che in queste storie. Ha prevalso il lato umano ed eravamo noi ad essere diventati curiosi di sapere, di scoprire, di avere più testimonianze, e chiedevamo di andare in clinica e chiamarci quando c’erano gli incontri col professore. Si era accesa una curiosità reale di vita, io conoscevo la schizofrenia come tema ma non in maniera così approfondita. Un vero viaggio insieme. Abbiamo iniziato il film con un grande background già completo”.

 

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01 Ottobre 2021

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