Era il 1946 e Vittorio De Sica consegnava per sempre alla memoria collettiva uno dei capolavori del Neorealismo italiano, Sciuscià, il mestiere del lustrascarpe di strada fatto per rimediare qualche soldino. Prima pellicola a vincere l’Oscar, come migliore film straniero, nonché primo Nastro d’argento nella storia del premio. 70 anni dopo, il regista Mimmo Verdesca, pensa, produce, dirige, monta – e qui racconta – un documentario, Sciuscià 70, che ripercorre la lavorazione del film di De Sica, conducendo lo spettatore dentro al film, con la complicità e l’umanità dei testimoni della storia, tra cui Emi De Sica, Franco Interlenghi, Rinaldo Smordoni, dello storico Orio Caldiron e di Marco e Paolo W. Tamburella, figlio e nipote del produttore del capolavoro neorealista. Il film, nel listino di Istituto Luce Cinecittà, è già stato ospite al prestigioso Festival Lumiére 2016 di Lione e sarà presentato come Evento Speciale al prossimo Bif&st di Bari (22-29 aprile).
Si ricorda quando vide per la prima volta il film di De Sica – suggestioni, emozioni, curiosità? E quando poi iniziò a pensare a questo progetto?
Sicuramente il film di De Sica l’ho visto nel periodo in cui studiavo cinema, ma forse anche prima, perché ho amato il cinema sin da bambino. Di conseguenza, spesso anche da adolescente, cominciavo da solo a leggere libri, guardare film, recuperare videocassette, quindi, sicuramente, avevo già avuto dei contatti con il cinema di Vittorio De Sica. Il progetto di Sciuscià 70 nasce da alcuni motivi molto precisi: anzitutto mantenere sempre viva la memoria, il suo recupero è quello che mi spinge ad avvicinarmi a queste tematiche; in particolare, questo documentario nasce, come dice il titolo, dall’anniversario dei 70 anni dal film, così mi sembrava doveroso, necessario, cercare di raccontare in maniera più dettagliata la lavorazione avventurosa di questo capolavoro, andando ad incontrare chi ha vissuto in prima persona quell’esperienza: Rinaldo Smordoni – protagonista insieme a Franco Interlenghi – oggi l’unica memoria vivente di Sciuscià. Poi ci sono le testimonianze di Emi De Sica e dei Tamburella, eredi del produttore, una figura che è stata in qualche modo dimenticata e che nel mio documentario ho cercato di riportare un po’ alla luce.
C’era qualcosa, prima di incontrare le persone e i loro racconti, che lei andava cercando del film originale, qualcosa in particolare che l’animava ad approfondire?
Quando m’avvicino a queste storie, che scelgo di raccontare attraverso il genere del documentario, c’è una forte spinta emotiva da parte mia. Sono incuriosito, poi, non tanto dall’aneddoto, ma cerco di andare a scavare, recuperare le emozioni, le sensazioni che hanno vissuto i protagonisti. Lo stesso Rinaldo Smordoni, che nella vita è così come appare nel documentario, ha mantenuto semplicità, verità, umanità: quest’ultima è la cosa che cerco sempre di tirar fuori da chi è davanti all’obiettivo.
Oltre alle parole, è riuscito a ben narrare anche le emozioni dei protagonisti, il “non detto”: gli occhi umidi nel ritrovarsi in certi spazi, le labbra incerte per la commozione di un racconto imminente. Quanto, questo aspetto, di significativo impatto emozionale, era nelle sue intenzioni e quanto è stato effetto naturale del ricordo dei protagonisti?
Entrambe le cose. Sicuramente è qualcosa che cerco, perché appartiene prima di tutto a me ed è quello che mi piacerebbe mi arrivasse, da spettatore, da un documentario: per me è importante che lo spettatore sia completamente coinvolto. Ma per tirare fuori l’emozione della vicenda devi entrare in empatia con i protagonisti: non parliamo di attori, parliamo di persone che hanno condotto nella vita un mestiere normalissimo e che si ritrovano, dopo tanti anni, per la prima volta, a raccontare delle storie personali, a regalare i propri ricordi, e non è facile. È un’intervista, seppur guidata da parte mia, e devi fare in modo che si lascino andare, che la loro emotività venga fuori in maniera naturale. Racconto la scena finale, quando Rinaldo Smordoni prende fra le mani l’Oscar da Tamburella: quel momento – che era preparato, perché si sapeva che avremmo girato una scena con la statuetta – è esattamente il momento in cui vede l’Oscar per la prima volta dopo 70 anni, perché prima di girare ho chiesto di nascondere l’Oscar affinché nessuno di noi, e soprattutto Rinaldo, potesse vederlo. Solo così l’emozione che ha poi avuto negli occhi è stata quella vera.
Il racconto dell’infanzia le appartiene – come anche a De Sica – era il tema del suo precedente documentario, Protagonisti per sempre. Qui ha scelto Rinaldo Smordoni e Franco Interlenghi, i due bambini protagonisti del film di De Sica, Pasquale e Giuseppe.
Sicuramente i bambini vivono le esperienze, come quella del fare un film, in maniera diversa, perché non le conoscono, sono più simili ad un gioco, e non pensano al ‘dopo’. La purezza e la verità che conserva un bambino è importante, e anche esemplare rispetto alla società di oggi.
Il film, sin dall’inizio, usa una scrittura immersiva: una delle fotografie prende corpo e ci fa entrare in una sequenza, che poi, in una strana ma armonica forma di continuità, passa dal bianco e nero della pellicola al colore del tempo presente, con un taxi che percorre una strada di Roma, fermandosi in un luogo dal forte carattere simbolico, il carcere, e così via. Ci racconta questa scelta di intermittenza tra passato e presente?
L’inizio e la fine del documentario mi erano chiarissimi da prima delle riprese. L’incrocio tra presente e passato era la soluzione narrativa che mi sembrava necessaria per poter entrare nella storia. Quando Rinaldo Smordoni è arrivato in questo luogo, tornando lì dopo 70 anni, è stato come se la memoria, in lui, avesse iniziato a prendere forma. Scegliere questa soluzione di racconto e montaggio mi sembrava la scelta più naturale per accompagnare lo spettatore all’interno dei suoi racconti, così la memoria prende vita, in questo luogo in cui ‘risente’ le voci dei bambini, li ‘rivide’, ‘rivede’ se stesso e si commuove. Di fronte a questi sentimenti non c’è bisogno di inventarsi chissà cosa, ma scegliere la semplicità di un primo piano, fatto sempre in punta di piedi, nel rispetto di chi dona al pubblico certe emozioni intime.
Qual è stato il lavoro fatto con il corposo e imprescindibile materiale d’archivio?
Sicuramente è un materiale fondamentale quando si raccontano storie che appartengono alla vita. Ho fatto una lunga ricerca. Un apporto molto importante è stato quello dell’Archivio dell’Istituto Luce, che con grande affetto e collaborazione mi segue sin dal mio primo documentario, In arte Lilia Silvi. Questo materiale non riguarda solo il film, ma De Sica, la società, il periodo storico. Inoltre ho attinto al materiale che sono riuscito a recuperare attraverso vari archivi: il CSC, il Visconti dell’Istituto Gramsci, ma anche quelli personali dei vari protagonisti.
A questo proposito, il lavoro con le famiglie De Sica e Tamburella com’è stato?
C’è stata una grande collaborazione da parte di tutti. Ho avuto la fortuna di poter mostrare il primo Nastro d’argento, quello conferito a Vittorio De Sica, che conserva Emi, così come l’Oscar che tiene la famiglia Tamburella, sono simboli molto forti, che non erano mai stati mostrati prima, così come tutto il materiale fotografico relativo a Sciuscià. Era importante anche recuperare non soltanto la memoria dell’arte di Vittorio De Sica, ma anche quelle di chi, con lui, ha contribuito alla realizzazione del film: le musiche di Alessandro Cicognini, la fotografia di Brizzi, gli sceneggiatori, tutta la troupe, e lo stesso Paolo William Tamburella, il produttore. Era importante cercare di raccontare la fatica di un gruppo di persone, tanto più in un periodo storico come il dopoguerra. La motivazione dell’Oscar, a questo proposito, è emblematica, infatti il documentario si chiude con questa scritta, rappresentativa di tutta la storia che ho raccontato.
Lei non è nuovo ai Nastri d’argento, già premiato nel 2012 nella sezione documentari per In arte Lilia Silvi. Il Nastro per Sciuscià 70, però, ha un significato davvero particolare.
Un premio, qualunque esso sia, è una gratificazione, considerando che questo documentario io l’ho anche prodotto. Un riconoscimento così importante, che arriva ancora dal Sindacato, nella persona di Laura Delli Colli e di tutto il direttivo, è qualcosa di ancor più gratificante. Inoltre, il Nastro che ho ricevuto è quello Speciale del 70° e la cosa che mi onora è che riproduca esattamente il primo Nastro, quello che vinse De Sica nel ’46. Quando sono stato chiamato al telefono ho urlato dalla gioia.
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