Goethe, sul letto di morte, disse due sole parole: “Mehr Licht”. Joseph Mallord William Turner, il grande pittore inglese, maestro della luce e precursore dell’impressionismo, pare abbia pronunciato la frase “The Sun is God”. Almeno secondo la bellissima biografia che gli ha dedicato Mike Leigh, vero elogio della luce in cui il regista britannico ha messo qualcosa di molto intimo: “Stavolta ho puntato la macchina da presa su di noi che cerchiamo di essere artisti con tutta la fatica che questo comporta. Far ridere la gente è una cosa, toccarla nel profondo e farle cogliere la sublime bellezza e insieme la spaventosa tragedia dell’essere vivi a questo mondo, è tutt’altra cosa. E pochi ci riescono”.
Premiato allo scorso Festival di Cannes per la superlativa interpretazione di Timothy Spall – che recita tutto curvo e grugnisce più che parlare – e la fotografia altrettanto eccelsa di Dick Pope, il film, due ore e mezza fittissime, in uscita con la BIM dal 29 gennaio, si concentra sugli ultimi 25 anni della vita dell’artista, nato nel 1775 e morto nel 1851, a 76 anni. Ne racconta l’arte sublime, mostrando il processo creativo, ma anche la personalità contraddittoria, capace di grande sensibilità ma allo stesso tempo di gesti a dir poco rozzi. I rapporti con le donne, segnati dalla perdita precoce della madre morta in manicomio, sono improntati a un atteggiamento scostante e predatorio, tranne che per la relazione con una vedova che gestisce una pensioncina sul mare a Margate, la signora Booth (Marion Bailey, compagna di vita del regista e sua collaboratrice fissa). Turner racconta poi i numerosi viaggi alla ricerca di ispirazione nel contatto con la natura, la morte dell’amato padre, un barbiere con cui viveva quasi in simbiosi, le schermaglie con i colleghi della Royal Academy, da cui lo divideva un atteggiamento provocatorio e molto moderno. Destinato ad appassionare i molti fan di William Turner, il film segna un momento di riflessione per l’autore di commedie come La felicità porta fortuna o di opere di sano e solido realismo come Segreti e bugie.
Partiamo dall’inizio. Perché parlare di William Turner in questo momento?
Tutto nasce dalla mia fascinazione per i suoi dipinti, una fascinazione che viene da lontano: l’ho scoperto quando ero studente di arte nei primi anni ’60. I suoi quadri sono in sintonia con la mia sensibilità nel ritrarre gli elementi naturali ed è un pittore molto cinematografico. Più in là, dopo Topsy Turvy, che è del 1999, ho scoperto la sua personalità e sono rimasto colpito dalla tensione tra i suoi molti difetti e la sua arte. Ma non so dire perché me ne sono occupato proprio adesso. Mi sembra che porti qualcosa alla comprensione del mondo in cui viviamo, ma non c’è una motivazione precisa o un intento propagandistico.
Come mai non ha raccontato nessuno dei numerosi viaggi in Italia, specialmente a Venezia, Roma e Napoli, del pittore?
Mentre preparavamo il film eravamo sicuri che avremmo girato in Italia, anzi a Venezia. Ma basta andare a Venezia come turista e prendendo due caffè per rendersi conto di quanto è cara e girare lì un film low budget, per di più ambientato nel XIX secolo, sarebbe stato impossibile. A quel punto abbiamo scelto di cercare l’essenza del processo creativo e dell’uomo. Non importa tanto dove si trova, lo vediamo girare per il Galles e l’Inghilterra ma quei paesaggi potrebbero essere alpini. L’importante è cogliere il suo rapporto con il paesaggio.
Perché avete deciso di concentrarvi sugli ultimi 25 anni della sua vita?
Anche per motivi di budget, la maggior parte dei suoi viaggi li fece quando era più giovane. E’ stato doloroso rinunciare a certe scene, tra cui soprattutto Venezia, come dicevo prima, dove sono stato anche insieme al direttore della fotografia Dick Pope per fare dei sopralluoghi e che ci ha ispirato tantissimo. Abbiamo anche cercato dei finanziatori italiani ma non ci siamo riusciti. Nessuno era disposto a entrare nel progetto per cinque minuti di film, ci chiedevano molta più Italia.
Il film è girato in digitale. Non è un peccato?
E’ una scelta obbligata in questo momento storico. Sia io che Dick Pope siamo sostenitori appassionati della pellicola, siamo uomini del XX secolo. Ma la pellicola non si trova più, i laboratori stanno chiudendo. E devo dire che il digitale è uno strumento fantastico che abbiamo deciso di imparare a suonare. Non riteniamo di esserci venduti al progresso.
Il progresso affascinava molto anche Turner, che vediamo appassionarsi ai treni a vapore e soprattutto alla fotografia.
C’è un quadro che è uno dei miei preferiti, Rain, Steam and Speed, si trova alla National Gallery. Rende bene l’atteggiamento di quest’uomo, nato nel 1775, di fronte a un’invenzione così moderna come il treno a vapore. Ci dà tutto lo stupore che deve aver provato. Ma è anche una metafora del progresso: c’è una piccola lepre che sta tentando di attraversare la ferrovia e sarà travolta e questo ci dice come Turner percepisse il progresso. E’ un pittore di contrasti. In un altro quadro che amo molto, Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi, qualsiasi altro pittore avrebbe magnificato gli elefanti e l’esercito, invece lui ce li mostra piccolissimi come per sottolineare la vanagloria.
Ha sempre pensato a Timothy Spall per il ruolo?
Sì, è sempre stata l’unica scelta. E’ enigmatico e contraddittorio, come era Turner. Gli piaceva avere una doppia vita, una vita segreta. Sapeva essere serio ma aveva un senso dell’umorismo anarchico come quando all’esposizione della Royal Academy mette un segno rosso nel suo quadro dopo aver visto un Constable dove il rosso abbonda. È un episodio accaduto veramente.
Ha voluto anche sottolineare le analogie tra pittura e cinema.
Come molti filmaker ho passato gran parte della mia vita a interrogarmi sulle analogie tra il cinema, la pittura, la musica, la letteratura. Il cinema è l’arte che per definizione comprende tutte le altre.
Avete avuto problemi di diritti nella riproduzione dei quadri, come spesso accade nelle cinebiografie di artisti?
Siamo stati fortunati. Turner era un pittore molto prolifico e ci sono dei Turner in tutto il mondo. Tranne un solo caso, tutti i musei ci hanno permesso di riprodurre i suoi quadri gratis, altrimenti non avremmo potuto fare il film. E poi si vedono quattro Turner autentici, nella residenza di campagna dell’aristocratico Lord Egremont.
Lei era presidente della giuria di Berlino quando i fratelli Taviani hanno vinto l’Orso d’oro. E’ rimasto in contatto con loro?
No, ma sono sempre un grande fan dei Taviani. Adesso, che è passato qualche anno, posso rivelarvi che Cesare deve morire piacque subito a tutta la giuria, era un film veramente speciale e sarebbe stato difficile scalzarlo.
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