Midi Z: fuga dal Myanmar

The Road to Mandalay, di Midi Z, oggi alle Giornate degli Autori


VENEZIA – I trafficanti di esseri umani seguono un percorso preciso: dalla Birmania alla Thailandia attraversando il fiume Mekong dalla città di frontiera Tachileik, lungo tranquille strade di campagna, passando i posti di blocco sorvegliati da poliziotti corrotti, fino a Bangkok, dove i migranti vengono lasciati soli. Lianqing è una dei cinque clandestini che fa questo percorso una notte d’estate del 2013; lungo la strada, un compagno d’avventura chiamato Guo si comporta in modo gentile, e i loro destini finiscono per incrociarsi. Alle prese con i problemi dei clandestini, Lianqing fa quello che è necessario: trova dei lavoretti, mette da parte soldi e scopre come e dove acquistare documenti di identità falsi. Per parte sua, Guo fa molto meno.

Lo racconta il tragico The Road to Mandalay di Midi Z, pluripremiato regista taiwanese (ma nato nel Myanmar, ovvero la Birmania) che racconta, in occasione della presentazione del film alle Giornate degli Autori, quanto di autobiografico ci sia dietro questa vicenda: “Nella mia terra – dice – dopo che hai preso il diploma ci sono tre modi per trovare lavoro. Vai a fare il minatore in montagna come mio fratello, coltivi oppio o cerchi di varcare il confine verso la Thailandia o verso la Cina. Solitamente scegliamo la Thailandia perché il confine è più ampio. Si fugge per la guerra oppure per le condizioni economiche pessime. E questa è la realtà per noi comune dopo la scuola. Mia sorella ha avuto un’esperienza simile a quella della nostra protagonista, quasi tutti i miei compagni e amici sono scappati in Cina per lavorare illegalmente. Dopodiché, fai soldi, compri i documenti e una identità. Sono stato più fortunato perché mia sorella è andata avanti prima di me e mi ha aiutato a entrare, e allora ho potuto studiare. Volevo diventare architetto ma i miei professori mi dicevano che non ero bravo, e di dedicarmi ad altro. Facevo i filmini per i matrimoni e me la cavavo con la fotografia, per cui ho scelto questa strada, ma soprattutto perché avevo bisogno di soldi e volevo che la mia famiglia avesse condizioni di vita migliori. Quando hanno iniziato a premiarmi – la prima volta al festival di Busan – mi sono detto ‘ma è così facile?’. Solo allora ho cominciato a pensare di fare il regista per vivere. Ma un film dura solo due ore, è troppo poco per descrivere la realtà, meno che mai la può cambiare. Però può servire a raccontare cose del mondo che non si conoscono”.  

C’è anche modo di parlare della condizione del cinema nella sua terra: “Dove sono cresciuto – dice – c’erano solo un paio di sale, erano lontanissime. Ci volevano due ore a piedi, anzi una stava proprio in alto sulla montagna. Proiettavano sempre gli stessi film, per lo più provenienti da Bollywood. Erano tutti film d’amore. Non si poteva rappresentare il mondo in maniera troppo realistica, e c’era bisogno del permesso del governo per girare e distribuire. Ora le cose sono cambiate. Si può girare dove si vuole, ma per la distribuzione è ancora necessario passare per la censura. La maggior parte dei film sono distribuiti direttamente in DVD. Anche in quel caso sono commedie d’amore, girate in economia e in pochi giorni e interpretate sempre dagli stessi attori. Negli ultimi anni sono arrivati anche i blockbuster e i film d’azione, ma sempre passando per il controllo della censura. A essere onesto, non avevo mai visto un film in vita mia prima di arrivare a Taiwan”.        

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