Michele Placido: “Pirandello come San Giuseppe, mio padre putativo”

'Eterno Visionario', in cui Fabrizio Bentivoglio interpreta il drammaturgo siciliano, diretto da Placido, anche nel ruolo di Saul Colin. Valeria Bruni Tedeschi nei panni della moglie e Federica Luna Vincenti con il doppio ruolo di Marta Abba e di produttrice del film, al cinema dal 7 novembre


Un treno, l’inverno – stagionale e della vita, un grande drammaturgo: Luigi Pirandello (Fabrizio Bentivoglio), il Premio Nobel e il viaggio per raggiungere Stoccolma, solo, o solo in compagnia di Saul Colin (Michele Placido), l’accudente agente letterario del Maestro ma, per il resto, l’unica compagnia è la malinconia, il pensiero di lei… Marta Abba (Federica Luna Vincenti): “la mia musa ispiratrice”, opposta alla paranoia, ai fantasmi, al mistero della mente di Antonietta (Valeria Bruni Tedeschi), la moglie, madre dei suoi figli, per cui – dice Pirandello del film – “non sono stato un buon padre … dobbiamo scrivere per vendicarci di essere nati” perché adesso è difficile “scoprirsi vecchi” quando “il cuore è ancora giovane e caldo”.

E se il Pirandello sulla scena di Eterno Visionario – in anteprima alla Festa di Roma e dal 7 novembre al cinema con 01 Distribution, con un’uscita annunciata di più di 350 copie – s’ammette mancante nel ruolo di padre, questa figura ritorna nella realtà, quella personale di Michele Placido che accompagnando il suo film racconta: “Pirandello per me – che quando sono entrato in Accademia mio padre non c’era più – è stato un grande uomo, l’ho preso come padre putativo, come è stato San Giuseppe. Non ho mai pensato di poter raccontare Pirandello perché è talmente sorprendete che… è stato proprio come uno di famiglia, davvero non pensavo di fare un film, questo fino a quattro anni fa, per cui era arrivata l’ora di metterlo in scena, forse essendo arrivato a questa età: ci voleva un vissuto, ci volevano i tempi… per seminare e per raccogliere e, come dice lui nel film: ‘la vita la si vive, la si vive, poi la si scrive’”.

E, durante la cerimonia per il Premio Nobel, sul grande schermo, lo scrittore tiene un discorso in cui “umiltà”, “amore” e “dolore” sono cardini fondamentali “per rimanere me stesso”, seppur Placido, da un punto di vista strettamente linguistico, sceglie di conferirgli una dizione neutra, non senza qualche “apertura” flessa sul lombardo, natale per l’attore milanese, pulendo questo Pirandello dall’accento siciliano.

Bentivoglio, Pirandello non lo doveva “fare” ma “volevo esserlo…”, con questo spirito ha vestito i panni dello scrittore, in “questo film che non è il frutto di undici settimane di riprese ma il frutto di più di 45 anni di condivisione con Michele, di teatro, poesia e cinema; quando giravano Del perduto amore, a Irsina, la sera si andava in una casa che Placido aveva preso e in cui s’era portato anche la mamma, che cucinava per tutti: io, nel film, facevo il padre… e una volta lei gli disse ‘chiamalo Beniamino’ – come si chiamava suo papà nella realtà – ‘che gli somiglia tanto…’, questo per dire il nostro legame profondo, umano. Solo lui avrebbe preso me per essere Pirandello, attribuendomi così una fiducia incondizionata, che mi ha obbligato a far molto bene”.

E, se nel film si cita Murnau in un discorso sul senso dell’inganno, Placido ammette di essersi ispirato a Bergman e che di licenze poetiche ce ne siano più d’una, tra cui – come tiene a ricordare Bentivoglio, rispecchiando perfettamente “l’autunno” del Pirandello del film – quella ispirata da Morte a Venezia: “a un certo punto, per avvicinarsi a Marta, lui si tinge i capelli, è una cosa che ho chiesto e voluto moltissimo, perché volevo che nella scena allo specchio gli colasse lungo il collo una goccia della tinta, perché il cinema non è compitare ma raccontare in modo poetico”.

Valeria Bruni Tedeschi racconta di “un incontro” speciale “con Michele, con la sua visione della vita, e la sua conoscenza degli attori” e poi ricorda La balia di Bellocchio del ’99, “film in cui avevo già fatto la moglie di Pirandello, che era sempre Fabrizio”, e a cui l’attrice ripensa rispetto alla “pazzia” della mente femminile, riflettendo che “se a trent’anni lei aveva una pazzia implosa, grazie a questa sceneggiatura ho scoperto che è esplosa, senza argini: lei è la stessa, ma trasformata con gli anni. La mia sfida era non fare… la follia, anche perché non la considero folle: ho lavorato con il mio bisogno di dire la verità”.

Mentre per la sua Marta Abba, Federica Luna Vincenti, anche co-produttrice del film con Goldenart, spiega di aver “pensato agli incontri della vita: possiamo realizzarci ma il vero demone può esprimersi nell’alchimia, e Marta aveva 25 anni quando Luigi ne aveva 58, e tra loro vive un rapporto simbiotico; alle oltre 500 lettere per Marta, lei ha risposto solo a 238: potrebbe essere anche una donna un po’ gelida nella vita, e mi ha ispirata Mariangela Melato, capace di poter rappresentare tutto… La nostra vita è piatta rispetto ai personaggi che possiamo interpretare…” un concetto di versatile universalità che l’accomuna alla lettura che Placido fa anche di Pirandello, di cui nel tempo ha messo in scena 500 repliche di sue opere, nel nome dell’esistere di “personaggi che dicono ancora qualcosa di contemporaneo, a noi che abbiamo vite in viaggio”.

 

 

 

 

 

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