BERLINO – Il rituale del gavage, l’ingrasso a tappe forzate a cui sono sottoposte le future spose per raggiungere una bellezza ideale, è al centro del film di Michela Occhipinti Il corpo della sposa Flesh Out a Berlino in Panorama. Una Mauritania praticamente inedita al cinema è raccontata nella sua complessità, sospesa tra tradizioni ataviche e modernità crescente, in quest’opera, in sala con Lucky Red, in singolare sintonia con altri titoli italiani visti qui al festival: si parla di identità (femminile) attraverso il corpo e il rifiuto di modelli imposti. “Qualche tempo fa, guardandomi allo specchio – racconta la regista – ho iniziato a vedere le prime rughe. Stavo invecchiando e non c’era molto da fare se non accettarlo con saggezza e grazia. Ma dal quel momento ho iniziato a osservare le donne attorno a me, rendendomi conto che molte sono ossessionate da modelli di bellezza folli, arrivando a dimagrire troppo o gonfiare i propri lineamenti”.
Per mettere in discussione tutto questo, la cinquantenne Occhipinti, nata a Roma e vissuta tra il Marocco e Hong Kong, il Congo e la Svizzera, documentarista (tra i suoi lavori Lettere dal deserto Elogio della lentezza del 2010), ha scelto una storia africana. Quella della giovane Verida (l’esordiente Verida Beitta Ahmed Deiche) che, in vista del matrimonio combinato dai suoi genitori, viene costretta al gavage per raggiungere un peso intorno ai cento chili, simbolo di ricchezza e benessere, ma anche di uniformità ai voleri della famiglia dello sposo, che offre una ricca dote e avanza le sue pretese. Dieci pasti al giorno, sveglie notturne per bere enormi tazze di latte, il rituale della bilancia – portata in casa dal coetaneo Sidi – che non segna mai abbastanza. Verida, ragazza moderna che lavora in un salone di bellezza, frequenta le amiche e i social network, ci porta all’interno di un mondo fatto di pericolose pillole per ingrassare a tutti i costi e wengala ovvero festini a base di cibo e danze sfrenate, ma anche creme sbiancanti per chi la pelle più scura e il sogno di studiare all’estero o i divorzi multipli. Prodotto da Vivo Film e Rai Cinema, il film è venduto all’estero da Films Boutique.
Insieme alla sceneggiatrice Simona Coppini, siete riuscite a mescolare documentazione e finzione e portarci in un paese dove tradizioni e modernità convivono. Come avete lavorato su questi temi?
Nel 2012 sono stata in Mauritania per un mese, insieme a Sidi Mohamed Chighaly, che nel film interpreta il ragazzo della bilancia, sono entrata nelle case e ho posto milioni di domande. In un salone di bellezza un’anziana mi ha fatto vedere le smagliature sulle sue braccia, segno di grande bellezza. Un tempo il gavage era estremo, veniva compiuto nell’arco di una sola notte e molte morivano con questa pratica, chiamata ‘el leila’. Oggi non si fa più ma nei villaggi del deserto, per bambine e ragazze molto giovani, è ancora molto diffuso, serve anche ad anticipare il menarca.
Però avete scelto una storia urbana e un personaggio moderno.
Non volevamo che lo spettatore ritenesse il gavage una cosa tribale, volevamo spingere piuttosto all’identificazione. Oggi in Mauritania solo un 20% delle ragazze sono costrette all’ingrasso, le altre lo scelgono. Vanno al wengala per mettere su due tre o chili. Noi facciamo il contrario. Siamo ossessionate dalla magrezza.
Il film le ha permesso di capire meglio il meccanismo di modellare il proprio corpo secondo il modello sociale dominante?
Sì, mi ha fatto capire il divario tra libertà reale e percepita, mi sono resa conto di essere meno libera di quanto credessi.
Verida si sottopone al gavage controvoglia, costretta da sua madre, a differenza di altre donne che lo scelgono consapevolmente.
In Mauritania le donne si sposano molte volte e anzi, più volte divorzi e più sei considerata appetibile perché hai esperienza. Verida è invece una ragazza obbediente alla sua famiglia, ma il mangiare così tanto, l’essere svegliata di notte, le provoca una ribellione fisica, prova nausea e ha il disgusto del cibo.
Quali similitudini ha trovato rispetto alla cultura occidentale?
I canoni estetici variano da un lustro all’altro, da una cultura all’altra. Non è in questione l’ingrassare o il dimagrire, ma il percorso di mortificazione e la sofferenza emotiva che comporta. Perché devo dimagrire? Perché devo fare un lifting alle mie rughe? Chi detta le regole?
Come ha scelto la protagonista, alla sua prima esperienza?
Verida aveva uno sguardo allegro e triste allo stesso tempo. Per girare certe scene difficili ha fatto appello alle sue esperienze personali.
L’imposizione del gavage arriva da una donna, la madre, mentre il padre resta sullo sfondo ma appare più comprensivo.
Flesh Out è un film di donne in una società dove vige il patriarcato fuori e il matriarcato in casa. È la donna che decide su certe cose.
E’ in ballo anche una questione di differenze sociali tra ricchi e poveri.
E’ un paradosso il mangiare così tanto in un paese dove metà della popolazione è indigente e vive la carestia. Ma è lo stesso tra Occidente opulento, dove si va al fast food a ingozzarsi, e altre zone del mondo.
Il film sarà visto in Mauritania?
Là non ci sono cinema, ma si farà una proiezione apposta e la temo moltissimo. Per la Mauritania il cinema è rappresentato essenzialmente da un regista, Abderrahmane Sissako, che ci ha aiutato nella produzione, è un grande cineasta.
A Berlino ci sono anche tre delle interpreti: Verida, Sidi e Amal Saab Bouh Oumar.
Solo ieri hanno ottenuto il visto dopo quasi un mese di richieste. La Germania non voleva concederlo perché bisogna avere un conto in banca, che le ragazze e i ragazzi del film non hanno.
C’è una forte corrente di cinema italiano del reale che cerca ispirazione lontano da casa, penso ad autori come Minervini e Gianfranco Rosi. Ha fatto una riflessione su questo aspetto?
Personalmente non mi interessa raccontare ciò che già conosco, voglio fare delle scoperte. Amo il diverso, ciò che è lontano da me, in cui trovare similitudini. In ultima analisi si capisce che siamo tutti uguali e non capisco perché stiamo andando uno contro l’altro.
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