“Quando ero adolescente, mia madre mi aveva raccontato la storia sconvolgente di una ragazza che era stata accolta a casa da miei nonni. Aveva 17 anni e ai tempi mia madre, che era poco più grande di lei, una sera aveva scoperto per caso che la ragazza era incinta e stava per partorire. Per questo motivo era stato organizzato un matrimonio il più velocemente possibile”. A questa storia di famiglia la regista marocchina Meryem Benm’Barek, studi cinematografici tra Parigi e Bruxelles, si è ispirata per il suo esordio Sofia, Premio Migliore Sceneggiatura -Un Certain Regard al festival di Cannes 2018 e dal 14 marzo in sala con Cineclub Distribuzione.
La sua matura opera prima, che richiama lo sguardo essenziale e sobrio dei film dell’iraniano Asghar Farhadi, si colloca in un Marocco che punisce con la reclusione, da un mese a un anno, le relazioni sessuali al di fuori del matrimonio, e dove ogni giorno 150 donne partoriscono al di fuori del legame matrimoniale. E’ quel che accade a Sofia ragazza della classe media, legata alle tradizioni, che vive a Casablanca con i genitori ai quali nasconde la sua gravidanza. Durante un pranzo di famiglia Sofia sta male, è prossima al parto ed è aiutata dalla cugina Lena, più istruita e indipendente, figlia di una famiglia ricca. Lena la porta in ospedale, all’insaputa dei rispettivi genitori, dove grazie alle sue conoscenze Sofia partorisce clandestinamente. Da quel momento Sofia ha poco tempo per trovare Omar, ragazzo di umili origini senza padre, da lei indicato come il padre della neonata, ed evitare così di infrangere il codice penale. Ed è poco anche il tempo per trovare una soluzione che salvaguardi l’onore di Sofia e della sua famiglia, e che soddisfi anche Omar e i suoi familiari.
L’esordio di Meryem Benm’Barek è il ritratto di una società fondata sull’ipocrisia, sulle convenzioni e sul denaro. E la realtà narrata è più complessa, più ambigua di quel che all’inizio pensiamo: i personaggi riveleranno aspetti inattesi, mossi da un improvviso colpo di scena.
All’inizio il film sembra essere all’inizio concentrato sul personaggio di Sofia vittima.
Ho scelto che il cuore del film fosse la questione della lotta di classe, del divario sociale, e che non fosse semplicemente il ritratto di Sofia, di una giovane donna, ma il ritratto di un paese. Importante era la rappresentazione di tutti i rapporti di potere all’interno della famiglia e della società. All’inizio il film si presenta come un thriller sociale perché si cerca di capire chi è il padre del bambino, ma questo tema viene presto accantonato e il racconto si fa dramma sociale e familiare. La società è allora come una partita a scacchi dove chiunque cerca di accedere al gradino superiore, ma schiacciando gli altri.
Anche il giovane Omar è una vittima di questo Marocco.
Ho voluto mettere in scena la società patriarcale in un modo più sottile e complesso di come spesso viene rappresentata. Spesso nel cinema arabo i personaggi femminili sono le grandi vittime della storia. Nel mio film ognuno cerca di sopraffare l’altro, anche Omar è allora vittima ma non per una questione di genere ma per l’appartenenza sociale inferiore. E’ la dimostrazione di come una società maschilista e patriarcale sia nemica sia delle donne che degli uomini.
Il rapporto con la bambina appena nata è solo accennato, perché?
E’ stata una scelta consapevole quella di non dare spazio al rapporto con il neonato fin dall’inizio. Non ho voluto cadere nel pietismo, nell’emotività.
Gli uomini non sembrano avere tutta quella autorità tanto dichiarata.
Ho privilegiato il ritratto freddo e implacabile dei meccanismi della società basati sul potere e il denaro. Se è vero che dal punto vista giuridico e legale quella del Marocco è una società patriarcale, da quello culturale sono le donne a decidere all’interno della famiglia . C’è allora questo contrasto tra il dentro e il fuori le pareti domestiche.
Sofia con la sua scelta alimenta il meccanismo che la condanna?
Sofia sceglie di non denunciare quanto accaduto e di sposarsi, spinta anche dalla madre e dalla zia, ma andando fino in fondo con questa sua decisione nutre il sistema di relazioni esistente, che come un rullo compressore finirà per opprimerla. Anche le donne si infliggono meccanismi che le imprigionano ancora di più.
C’è stata una battaglia in Marocco contro l’articolo penale 490?
Tante associazioni marocchine da tempo si battono contro questa legge, in particolare l’associazione Solidarietà femminile che da più di 25 anni è impegnata per abolirla. Ma il problema non è di ordine sessuale, perché i marocchini continueranno una vita sessuale in modo più nascosto, clandestino, bensì di ordine sanitario e sociale. La legge coinvolge questioni come la contraccezione, l’educazione sessuale, l’aborto. Tanti sono i bambini che vengono cresciuti senza un padre e tante le donne che faticano a vivere da sole.
Il suo film richiama lo stile dei fratelli Dardenne e di Asghar Farhadi.
Non è una scelta consapevole il richiamo ai fratelli Dardenne a differenza dell’influenza di Asghar Farhadi, un regista che ho studiato tantissimo, soprattutto i suoi primi film. Ecco che un fatto ordinario, comune come questo delle ragazze madri, è rivelatore delle dinamiche di una società. Inoltre come Farhadi provo a parlare un linguaggio semplice, accessibile e a raccontare con pudore.
Nel film è evidente il contrasto tra Lena che comunica in francese con Sofia la quale a sua volta le risponde nella lingua locale.
La questione della lingua è esemplificativa del divario sociale in Marocco. Il fatto di esprimersi non bene in francese o di parlare soltanto nel dialetto marocchino crea emarginazione. Questo divario linguistico è diventato un problema educativo: chi proviene dalle famiglie agiate frequenta le scuole private e parla correntemente il francese; non è la stessa cosa per i giovani che vanno nelle scuole pubbliche.
Sofia si muove con le possibilità che la società le ha dato e Lena invece?
Lena appare come un personaggio all’inizio generoso, altruista nei confronti di Sofia, ma poi lentamente ci accorgiamo del suo sguardo di commiserazione e pietismo verso la cugina. E alla fine Lena perderà questo candore iniziale, una volta consapevole dei meccanismi sociali del suo paese.
Il suo sembra essere uno sguardo pessimista sui meccanismi sociali del Marocco.
Sì, la vera rabbia e frustrazione che vivono i giovani marocchini delle classi popolari e povere è quella dell’impossibilità di cambiare. Possono fare tutti i tentativi possibili, ma non usciranno da questa condizione. Non c’è una via d’uscita in una società che li schiaccia e penalizza e perciò il film non si conclude con una soluzione consolatoria.
Come ha scelto i giovani interpreti?
L’attrice che interpreta Sofia non è una professionista, anzi studia contabilità. Mi sono imbattuta in lei vedendola in un piccolo ruolo al cinema e sono rimasta folgorata dal volto. Ho avuto sempre in mente lei così magnetica e naturale mentre scrivevo la sceneggiatura, ho impiegato 4 mesi per rintracciarla e un altro mese per convincerla ad accettare. Per Lena ho fatto provini a circa 250 attrici, ma mi sono imbattuta con giovani belle ma artificiose, mentre cercavo una ragazza che rappresentasse senza cliché la borghesia, con quell’ingenuità del personaggio benpensante che alla fine si sgretola. Anche Omar non è un attore professionista, è un rapper ed è stato scelto dopo un casting nei quartieri popolari.
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