Maya Sansa, per ‘Le mie ragazze di carta’, “una comicità un po’ inglese”

Il film di Luca Lucini, con Andrea Pennacchi, Neri Marcorè - che debutta alla regia - Giuseppe Zeno e Alvise Marascalchi, il "piccolo" Tiberio: l’autore e gli attori al Bif&st


BARI – Luca Lucini mette sul grande schermo – con poesia – la (sua) nostalgia delle cose che non torneranno più

Le mie ragazze di carta è “un film che reputo un mio nuovo esordio. È un film che aveva vinto il Solinas 2007 ma non era riuscito a prendere vita: i produttori, poi – Pepito Produzioni – hanno creduto in un progetto che non ha le regole dell’algoritmo ma quelle del cuore”, dice il regista. 

Primo Bottacìn (Andrea Pennacchi) suda davanti a una commissione d’esame scolastica, che gli rileva emozione nel tema, “del tutto insufficiente soprattutto la grammatica”, ma il presidente gli domanda il primo articolo della Costituzione italiana, e – imboccandogli la risposta – lo congeda e, di fatto, lo promuove. Il diploma serve per “andare in città”. 

“Una delle caratteristiche di Mauro Spinelli – co-sceneggiatore – è di aver scritto dei personaggi mai mono dimensionsali, ma sempre con cura e umanità. C’è un collegamento tra tutti, come don Marcello (Neri Marcorè) è connesso alla provincia italiana, alla Chiesa, che però in qualche modo ti sorprende: sono personaggi rotondi”, continua Lucini. 

È il 1978, e la gente della corte del paesino natale di Primo – nella campagna veneta – è tutta riversa fuori dalle case, c’è anche un prete: si assiste a un evento, Bottacìn, con la moglie Anna (Maya Sansa) e il figlio Tiberio (Alvise Marascalchi) si trasferiscono a Treviso. Primo ha vinto il concorso pubblico per fare il postino. E, come narra in voce off Tiberio, “quel trasferimento cambiò tutto”: anzitutto,  mangiano “qualcosa di nuovo e moderno, i sofficini”, ma il ragazzino ammette di provare un sentimento mai sentito prima, la nostalgia, “la nostalgia delle cose che non torneranno più”.

E Tiberio, che era stato al cinema solo due volte, ora “ci abitavo davanti, era la prima cosa bella della città“. È il personaggio di Giuseppe Zeno il titolare della sala, sull’orlo del fallimento: anche lui ha un figlio, Giacomo, 14enne come Tiberio, entrambi frequenteranno Ragioneria, e il primo giorno di scuola il piccolo Bottacìn si leva il papillon che la mamma gli ha fatto indossare, a favore della prima sigaretta fumata nel bagno all’intervallo. 

Sansa ha “trovato delle note di comicità leggera, un po’ inglese, nella sceneggiatura: c’è molta grazia nel film, è elegante nella scrittura”.

Anna e Primo, un po’ per omologarsi al comportamento sociale cittadino, un po’ perché il figlio abbia “sempre le giornate piene”, decidono debba frequentare un’attività quotidiana: così entra in scena il rugby con don Marcello, “più un capo indiano, una via di mezzo tra Tiger Jack e Cavallo Pazzo, era il nostro massaggiatore, presidente, guida spirituale… dicevano pure che in Bolivia avesse lasciato una moglie e un figlio“, racconta Tiberio. Per l’attore marchigiano, “il rugby è molto più formativo del calcio, per cui ormai devi essere un po’ attore e un po’ atleta. Del progetto mi piaceva il protagonista e l’amore impossibile e ideale, proprio solo di quell’età: un rimpianto dell’adolescenza sono le tranvate dell’amore; e poi il mio prete dalla capigliatura discutibile è un uomo sì religioso ma forse un precursore rispetto al tema del matrimonio dei sacerdoti e di lui mi piaceva il risvolto legittimamente umano”.

Marcorè, sfrutta l’occasione anche per ringraziare Agostino Saccà, produttore per Pepito, “per il mio debutto alla regia, col film in uscita in autunno”.

Tornando “a Treviso”, nel frattempo, consegnando la posta, Primo fa la conoscenza di una signorina, o meglio… di un travestito dapprima disperato (Cristiano Caccamo), eppure “il contadino”, ora postino, si rivela più aperto del previsto: “…quando ero in campagna c’era un gallo che voleva sempre covar le uova… è natura anche quella” gli dice.

Per questo ruolo insolito, Caccamo racconta che “è stato più facile di quanto sembri, leggendo il film m’ha suggerito la dolcezza: da attore tendi a recitare i sentimenti, i rapporti, al di là del costume che indossi. E poi, non avrei mai scoperto il dolore di portare i tacchi!”.

Intanto Giacomo – che chiama per sfottò Tiberio “finocchio” – lo cerca di indirizzare alle femmine, per lui massima attrazione. E così, per l’erede Bottacìn, la città si fa pian piano sinonimo dell’amore, quello dei sentimenti, quello delle passioni personali. “Ci piaceva far corrispondere la perdita di innocenza a quella della mentalità di un intero Paese: quando fai certe scoperte non puoi più tornare all’innocenza, allo stesso modo il Paese iniziava un processo di cambiamento irreversibile. Un fattore divertente del racconto è l’innamoramento quasi impossibile per una pornostar, un cortocircuito che fa parte del concetto dall’amore, da quello per il cinema in là. La volontà era, appunto, raccontare qualcosa che non tornerà più”, conclude Lucini. 

Il film s’annuncia nelle sale nei prossimi mesi

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28 Marzo 2023

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