Matteo Garrone: “Corpi mutanti nel mio fantasy italiano”

Il regista ci parla del suo kolossal in concorso a Cannes e in sala dal 14 maggio con 01. "Il Seicento di Basile parla di lifting e altre ossessioni contemporanee"


La brutta notizia è che nessuna banca italiana ha voluto scommettere su Il racconto dei racconti, il fantasy italiano di Matteo Garrone che il 14 vedremo nelle sale con 01, in oltre 400 copie, in contemporanea con il Festival di Cannes, dove passa in concorso. La buona notizia è che il regista romano, anche produttore con la sua Archimede, è riuscito comunque in questa titanica impresa che coinvolge Rai Cinema, il MiBACT, coproduttori inglesi e francesi come Le Pacte e Jeremy Thomas, l’Apulia Film Commission. “Questo è il mio primo film di queste dimensioni, non voglio far polemiche, ma dopo che ero riuscito a montare tutto non ho trovato una banca in Italia disposta ad anticipare il cash flow. Nessuna banca ha creduto in me perché la mia è una casa di produzione piccola e alla fine ho trovato una finanziaria in Francia, ma sono dispiaciuto di pagare gli interessi lì”.

Costato 12 mln di euro, Il racconto dei racconti è un film visivamente lussureggiante, con tanti echi pittorici, un ritmo inarrestabile, atmosfere inquietanti. Girato in luoghi fantastici ma dal vero, come Castel Del Monte in Puglia o le gole dell’Alcantara in Sicilia, capace di amalgamare un cast internazionale (Salma Hayek, Vincent Cassel, Toby Jones, John C. Reilly) a queste favole profondamente radicate nella tradizione partenopea. Un film che gioca col genere, che mescola l’horror con i temi da sempre cari a Garrone come il desiderio frustrato che diventa cieca determinazione, anche omicida, e la mutazione del corpo posto al servizio degli egoismi umani (direttore della fotografia è, non per caso, un collaboratore fisso di Cronenberg come Peter Suschitzky). Tre delle cinquanta novelle del Pentamerone di Giambattista Basile – le fiabe in lingua napoletana pubblicate postume tra il 1643 e il 1636 – bastano ad accendere l’immaginazione dell’autore, due volte Grand Prix a Cannes, con Gomorra e Reality. Sono La vecchia scorticata, La Pulce e La Cerva fatata, contaminate con altre suggestioni che provengono tutte da quel mondo di principesse e orchi, draghi e megere, re e straccioni. Un mondo arcaico eppure tutt’altro che inattuale ma anzi a tratti calato nella nostra contemporaneità in modo quasi sorprendente. Nel cast anche Alba Rohrwacher e Massimo Ceccherini, nel ruolo di due artisti circensi, e altre presenze italiane sparse come Giselda Volodi o Renato Scarpa, anche se tutti recitano in un inglese che vuole essere quasi scespiriano.E del resto Italo Calvino definì Basile “un deforme Shakespeare partenopeo”.

La prima domanda è la più ovvia: perché Basile?
È un autore che ho incontrato tardi nella mia vita ma che ho subito sentito familiare. Era un genio assoluto. I suoi racconti mi hanno colpito per la bellezza dei personaggi, per la ricchezza visiva e l’originalità delle storie. Forse fare un fantasy oggi in Italia è una scelta masochistica, una scelta incosciente fatta in un momento in cui volevo mettermi nei guai.

Come si inserisce il film nel tessuto della sua carriera?
Nel mio percorso artistico, finora, sono partito dalla realtà per trasfigurarla in una dimensione fantastica, qui faccio l’inverso, prendo dei racconti magici e li porto a dimensione più concreta e realistica. Per me che vengo dalla pittura, la ricchezza delle immagini di Basile mi faceva sentire tranquillo. Penso che L’imbalsamatore potrebbe essere un racconto di Basile in chiave moderna. Il fantasy è un genere vicino alla mia poetica, al mio gusto personale, alla mescolanza di reale e fantastico, di comico e tragico. E poi ero felice di esplorare un genere nuovo e di dare visibilità a un autore ingiustamente conosciuto da pochi, che spero adesso sarà letto da un pubblico più ampio. Lo cunto de li cunti è il primo libro di fiabe scritto nel Seicento e ha ispirato i successivi Fratelli Grimm, Hans Christian Andersen e Perrault. È stato Basile a scrivere per primo la fiaba di Cenerentola, La bella addormentata, Il gatto con gli stivali.

Il suo è un film rischioso, almeno sulla carta.
Ci sono molti rischi e molte difficoltà in questo progetto. Difficoltà produttive anche se la Rai e il ministero ci hanno creduto sin dall’inizio, ma comunque non è stato facile montarlo. Poi difficoltà tecniche, per gli effetti speciali, le scenografie, i costumi. Io sono abituato a controllare l’immagine sul set, invece stavolta avevo a che fare con i green screen e lo trovavo un po’ frustrante, tanto che abbiamo cercato soluzioni tecniche nuove per poter avere gli effetti speciali, come gli animali fantastici, per esempio il drago marino e la pulce gigante, in scena con gli attori. Con il digitale siamo intervenuti alla fine per i ritocchi.

In cosa si differenzia consapevolmente dal fantasy a cui siamo abituati?

Ha l’ambizione di essere un film per il pubblico e infatti la lingua inglese si rivolge a un pubblico più vasto possibile, ma la cultura napoletana – e italiana – è molto forte e molto presente. Uno dei rischi era cercare di imitare i film americani o anglosassoni. Noi abbiamo cercato di fare un film spettacolare ma mantenendo l’autenticità. In questo è stata una scelta giusta far venire gli attori stranieri da noi. Così ho potuto mantenere le radici ben solide nel mio paese. 

Come avete scelto le straordinarie location?
Siamo stati con lo scenografo Dimitri Capuani otto mesi in giro per l’italia alla ricerca di luoghi che volevamo reali ma che sembrassero costruiti in studio. C’è un iperrealismo, qualcosa che si muove tra realismo e dimensione fantastica, come alle origini del cinema in quei film dove si sente l’artificio ma che hanno una loro verità.

I personaggi delle tre storie sono mossi dalla brama a volte accecante: la regina che vuole un figlio ad ogni costo, anche fosse la morte, il re che si affeziona a una pulce più che a sua figlia, la vecchia che vuole tornare ad avere un corpo giovane e desiderabile.
Il desiderio muove questi personaggi, è una mia ossessione come anche le mutazioni del corpo. Trovo una modernità in questi racconti. Basile parla anche di chirurgia estetica e lifting, dell’ossessione per la bellezza, della violenza che una ragazza deve affrontare per diventare adulta, del desiderio di maternità a tutti i costi, del conflitto tra le generazioni…

Come avete scelto, con gli sceneggiatori Edoardo Albinati, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, le tre fiabe tra le tante?

Non è stato facile scegliere quali racconti mettere in scena. Alla fine ci siamo concentrati su tre racconti al femminile che rappresentano tre età diverse della donna. Ma non so dire bene perché. 

Perché questo cast internazionale, avete mai pensato a realizzarlo con attori napoletani?

Il cast parte dalla fisicità degli attori, Salma Hayek era perfetta come regina spagnola del Seicento, Vincent Cassel è comico e drammatico al tempo stesso e mi ricordava Vittorio Gassman… Al napoletano ci abbiamo pensato ma sarebbe stata una traduzione, perché nessuno legge più Basile nel dialetto della sua epoca e poi volevamo evitare localismi e dare un respiro universale al film.

Poteva essere una serie?
Sicuramente, oppure potrebbe dare vita a un secondo film, c’è così tanto materiale. Avevamo iniziato a sceneggiare anche altri racconti.  

Quali sono gli spunti pittorici o cinematografici?
Sicuramente I capricci di Goya che avevo nel mio studio mentre scrivevo la sceneggiatura. Con il loro elemento grottesco, ironico e macabro sono perfetti. Come riferimenti cinematografici la serie Il trono di spade innanzitutto, poi Mario Bava, Uccellacci e uccellini e alcuni corti di Pasolini, L’Armata Brancaleone di Monicelli, il Pinocchio di Comencini, il Casanova di Fellini.

A Cannes quest’anno ci sono tre film italiani in concorso. Come vive questa sfida? Si aspetta un premio?  
Il premio migliore per me è la sala. È un film che nasce per il pubblico prima ancora che per i festival. Essere in tre in concorso è motivo di orgoglio siamo tre registi completamente diversi e anche i tre film non si assomigliano affatto, forse per questo Frémaux li ha presi tutti e tre. Ed è un segnale importante per il cinema italiano a livello internazionale. 

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