Roma come New York e Matteo Garrone come Hal Hartley? Estate romana – opera terza del giovane cineasta romano – è stato subito paragonato, giustamente, al miglior cinema indie. Lui sorride, non conferma e non smentisce. “Qualcun altro ha citato Diario di un vizio di Marco Ferreri”, corregge. Ma è soprattutto l’anima degli indipendenti Usa, vecchi e nuovi, ad aggirarsi per il Lido alla vigilia di Denti. Con lo spiazzante Dr. T and the Women di Bob Altman, il film più discusso finora, quello che ha fatto innervosire molte per la visione surreale ai limiti della caricatura del femminile che ruota attorno a Richard Gere, ginecologo in quel di Dallas, Texas, cioè in una “città delle donne” all’americana, in tailleur rosa confetto e battute di caccia all’anatra. Oppure nell’inodore e insapore The prime Gig (“Il primo ingaggio”), modesto erede di Americani di David Mamet per la voglia di mettere in scena il mondo dei piazzisti, di piccolo o grande cabotaggio. Cast curioso (c’è anche l’ex Sabrina Julia Ormond) e regia del teatrale Gregory Mosher, professionalmente assai vicino a Mamet ma con poca della sua nevrotica genialità.
Molto meglio, secondo noi, la prova di Garrone. Che stavolta ha tra i critici sostenitori e detrattori, mentre fu tra i pochi a salvarsi dagli impallinamenti nel ’98 con l’apprezzato Ospiti.
Quel film, fuori festival, lo videro in pochi, questo ha già una distribuzione (l’Istituto Luce) e un budget che Matteo considera addirittura miliardario (500 milioni).Ma che non gli ha tolto la libertà di fotografare un ambiente, geografico e umano senza filtri, da documentarista dello spirito. Ed ecco allora la multietnica Piazza Vittorio con il tram e le riunioni di un comitato antistranieri, la marginalità del teatro d’avanguardia simile alla marginalità di Terra di mezzo. La scena off storica, anni ’70, rivisitata con amore e incarnato dalla straordianaria presenza, spaesata ai limiti dell’autismo ma sempre carica di senso, di Rossella Or e dall’apparizione magnifica di Victor Cavallo, morto pochi mesi dopo le riprese. Il breve dialogo notturno tra Rossella e Victor è un testamento in presa diretta. Senza dialoghisti sullo sfondo. Anche se Estate romana – che doveva chiamarsi “Come faccio a non scomparire?” – è il più scritto dei film di Matteo, grazie al contributo di Massimo Gaudioso (Il caricatore).
“A Rossella ho chiesto di raccontare con la sua presenza i cambiamenti antropologici della città. Può sembrare una matta… in realtà è portatrice di una saggezza che però affonda radici nell’incomunicabilità”. Per la prima volta Matteo l’ha vista in un video girato da suo padre Nico, noto critico teatrale, e da Giuseppe Bertolucci sulle cantine romane. “Li conoscevo già da piccolo, ora ho ripensato a loro anche in rapporto a me stesso e al mio ambiente”. Accostando queste sensazioni alle pagine di un racconto di Melville, Barthleby lo scrivano, di cui è rimasta “l’anima”. “Cosa c’entra? E’ la storia di uno scrivano che, assunto da un bonario notaio, porta con sé misteri, senso di colpa e angosce fino a incrinare l’equilibrio del suo datore di lavoro. Una storia claustrofobica che io ho trasportato all’esterno, tra cantieri del Giubileo e Ostia, mentre la China Town dell’Esquilino con gli immigrati e il senso di precarietà che trasmette mi fa pensare alla New York di Melville”.Altra fine secolo, stesse inquietudini.
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