Giacomo Leopardi ”ha a che fare con le illusioni e le disillusioni dell’animo, anche quelle di oggi. Sentire la vita che è in grado di trasmettere nonostante la sua sofferenza è un mistero che non ha fine. Io ora sto montando Il giovane favoloso in cui parlo di lui, e sarei pronto a girare su Leopardi altri sette film… ma giuro che non lo farò”. Lo ha detto Mario Martone nell’incontro di cui è stato protagonista alla Feltrinelli di Roma, dedicato al libro “Mario Martone – La scena e lo schermo”(Donzelli), curato da Bruno Roberti e Roberto De Gaetano, che racchiude un autoritratto del regista e 14 interventi critici su di lui. Il cineasta, che ha scelto come protagonista del film Elio Germano (”ho pensato subito a lui, alla sua intensità”) si è soffermato sul suo rapporto con il poeta di Recanati. ”Dopo Noi credevamo tanti mi chiedevamo se fossi pazzo a voler fare un altro film sull’Ottocento ma alla fine ha vinto la mia voglia di arrampicarmi su sentieri impervi”, ha spiegato. Leopardi ”si è affacciato per la prima volta nel mio lavoro nel 2004 con lo spettacolo L’Opera segreta, in cui parlavo di tre artisti non napoletani che hanno trovato a Napoli ispirazione: Caravaggio, Anna Maria Ortese e lui”. Poi nel 2011 ”allo Stabile di Torino mi avevano chiesto di portare in palcoscenico un grande testo italiano e io, entrando in una libreria, dopo aver perso un treno, mi sono ritrovato fra le mani le Operette morali, un libro che ho sempre amato. Ho pensato subito fosse la scelta giusta”. Per Martone ”Leopardi attinge al passato per guardare molto in avanti, è come se fosse precipitato in un tempo non suo”.
Come regista fra teatro, opera e cinema, Martone si definisce ”un falegname, un uomo pratico. Reagisco continuamente a quel che accade nella realtà, in continuo dialogo con le tante disillusioni che abbiamo affrontato. Le continue trasformazioni della nostra società, stretta fra le contraddizioni, mi hanno catapultato all’indietro”. L’idea di raccontare il Risorgimento con Noi credevamo ”è venuta dopo l’11 settembre, da una riflessione sul terrorismo. Mi sono chiesto se avessimo mai fatto delle intifade. E allora inizi a scavare nel passato e il passato ti risucchia. Nei personaggi di quel tempo trovi quelli che hai intorno oggi”.
Martone ha anche parlato dell’influenza nel suo lavoro di Pasolini (”ogni regista italiano penso sia stato segnato in qualche modo dalla sua forza”) e dei suoi inizi, nel 1977 ”a 17 anni a Napoli, con il teatro d’avanguardia. Da allora ho continuato a muovermi in modo ondeggiante, con il mio primo film a 31 anni e la prima opera teatrale a 40, pensando sempre agli spettatori come parte integrante del mio lavoro”. Il primo film, Morte di un matematico napoletano, ”l’ho fatto con pochissimi soldi, e con attori su un percorso comune, da Cecchi a Servillo. Non ho voluto mi affiancassero, come allora si faceva, professionisti di esperienza, eravamo tutti agli inizi, o quasi, dal direttore della fotografia Luca Bigazzi al montatore Jacopo Quadri. Il senso era ‘sbagliamo con le nostre mani’. Era anche un discorso generazionale, etico”. Martone ha anche accennato a La grande bellezza di Paolo Sorrentino, “un grande film che si muove con una strategia vincente nel raccontare le disillusioni della società italiana”. Il regista ha apprezzato che Sorrentino nel suo discorso di ringraziamento per l’Oscar abbia accennato a Scorsese e ai Talking Heads: “due riferimenti che appartengono anche al periodo in cui ho iniziato io. Sorrentino viene da quel grande clima ed è stato bravissimo a saperlo valorizzare. Paolo ha una grande capacità di sentire quella comunità”.
Il regista australiano, è noto per il suo debutto nel lungometraggio con il musical 'The Greatest Showman'
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