BERLINO – Untitled New York Review of Books Documentary arriva alla Berlinale preceduto da un cortese ma fermo avvertimento del festival: “Il film è un work in progress e sarà presentato in tre estratti. Non è un film completo, audio e immagine sono ancora da ultimare. Per questo non è consentito pubblicare recensioni dopo la proiezione”. Insomma, ci spostiamo dal quartier generale della Berlinale a Potsdamer Platz prendendo un paio di metropolitane verso Ovest, diretti all’Haus der Berliner Festspiele, con una strana sensazione. Vedere un film, per giunta di Martin Scorsese, ma doverne poi scrivere pesando le parole non è il massimo. Eppure ne è valsa la pena: il lavoro realizzato con David Tedeschi (editor di Shine a Light, altro bel documentario del regista americano presentato proprio qui alla Berlinale nel 2008), per quanto incompleto, ci ha offerto un affascinante e stimolante spaccato della società intellettuale newyorchese attraverso cinquant’anni di storia della prestigiosa rivista, fondata appunto nel ’63 da Robert B. Silvers e Barbara Epstein durante un lungo sciopero del New York Times.
“È stato Silvers a chiedermi di fare questo film – ha raccontato il regista dopo l’affollata e applaudita proiezione – in qualche modo è un lavoro su commissione, e ci ho messo un certo tempo a capire come affrontare questo strano oggetto, sia perché stavo lavorando a The Wolf of Wall Street ed ero molto preso, sia perché volevo rendere la letteratura e la parola per immagini”. In più “la sfida era anche capire cosa inserire e cosa omettere di cinquant’anni di storia. Ho pensato alle nuove generazioni, a quello che poteva essere interessante per loro in questa era di comunicazione globale e penso che arrivi il senso di quanto la libertà sia qualcosa di fragile”. Molte interviste e molte immagini d’archivio ripercorrono, rievocando il costante impegno civile e politico della rivista, mezzo secolo di storia americana e mondiale, ma Scorsese sceglie di filmare gli articoli stessi che diventano veri e proprio protagonisti della scena in più di un momento. Nonostante sia un lavoro su commissione si percepisce il forte coinvolgimento nelle battaglie che vengono evocate: come racconta il cineasta italoamericano: “Leggo o cerco di leggere NYRB dal ’63, da quando ero ancora uno studente”.
Il film raccoglie voci inestimabili della cultura radicale americana, in parte con nuove interviste in parte con materiali di repertorio: Susan Sontag, Noam Chomsky, Norman Mailer, Gore Vidal, Mary McCarthy, Isaiah Berlin, Joan Didion, Michael Chabon, Mary Beard e Timothy Garton Ash, fra gli altri. Tra i tanti temi toccati, sulla falsariga dei numeri del bisettimanale (e più di recente del blog): la questione razziale, i diritti dei gay, la liberazione della donna, la caduta dei Muro, la crisi balcanica, l’Irak, la primavera araba. E naturalmente il Vietnam che, inutile dirlo, occupa molto spazio con alcuni materiali d’archivio e fotografie molto note e altri contributi poco visti. Per l’editore Rea S. Hederman, proprietario della testata dal 1984, arrivato dal Mississippi a New York, “Uno degli aspetti cruciali di questa rivista è sempre stato il tema dei diritti umani”. Eppure – aggiunge Silvers – sarebbe il più grande errore avere l’illusione di poter cambiare le cose con il dibattito delle idee, potrai al massimo influenzare qualcuno, ma non creare grandi cambiamenti”. Il film, che si apre con le immagini di Occupy Wall Street, dovrebbe essere ultimato il mese prossimo e quindi pronto per Cannes. “Mancano ancora interventi sul suono e la color correction”, svela Martin. Inoltre la voce off, che ora è la sua, sarà quella dello scrittore premio Nobel Derek Walcott.
Alla prossima edizione della Berlinale, 5-15 febbraio 2015, sarà presentata una retrospettiva dei film del regista, a cui il festival renderà omaggio. lo ha annunciato il direttore Dieter Kosslick
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L'Orso d'oro e l’Orso d’argento per l’interpretazione maschile vanno al fosco noir Black coal, thin ice di Diao Yinan insieme al premio per il miglior contributo tecnico alla fotografia di Tui na di Lou Ye. Un trionfo cinese a conferma della forte presenza al mercato di questa cinematografia. Importante anche l’affermazione del cinema indipendente Usa che ha visto andare il Grand Jury Prize a Wes Anderson per il godibilissimo The Grand Budapest Hotel. Il talentuoso regista ha inviato un messaggio nel suo stile: “Qualche anno fa a Venezia ho ricevuto il leoncino, a Cannes mi hanno dato la Palme de chocolat, che tengo ancora incartata nel cellophane, finalmente un premio a grandezza naturale, sono veramente contento”. Delude il premio per la regia a Richard Linklater che avrebbe meritato di più