Un concetto che sfugge all’immaginario collettivo, che proietta l’interprete – specie quello di cinema – all’interno di un luogo comune che lo vede sempre ricco, famoso, circondato di belle donne (o begli uomini) e di gente che gli presta attenzione. Marco Risi invece, con il film Tre tocchi, in uscita il 13 novembre e in programma al Festival di Roma nella sezione Gala, dà voce a coloro che, pur intraprendendo questa carriera, non hanno ancora raggiunto il grande successo e vivono a volte di espedienti e frustrazioni. In particolare, lo fa attraverso i racconti (romanzati ma basati su esperienze reali) delle vite di sei giocatori della squadra calcistica ‘degli attori’, fondata negli anni ’70 da Pasolini. Il regista, pure lui parte della squadra, ha investito lui stesso 450mila euro per il progetto (il resto del budget viene dalla Ambi Pictures di Andrea Iervolino e Monika Bacardi). Accanto agli attori/giocatori Max Benvenuto, Gilles Rocca, Vincenzo Di Michele, Fabrizio Nevola, Emiliano Ragno (che recitano sostanzialmente nel ruolo di loro stessi, usando i loro stessi nomi) si è aggiunto un gruppo di nomi famosi che hanno generosamente accettato di partecipare in brevi apparizioni: Luca Argentero, Claudio Santamaria, Marco Giallini, Francesca Inaudi, Valentina Lodovini, Maurizio Mattioli.
E’ una storia di attori con la passione per il calcetto?
Piano. Il calcetto è una cosa da circolo, da persone accasate. Il calcio è una cosa seria. Io stesso ne faccio parte e non molto tempo fa mi sono beccato un fallo pazzesco da un calabrese di 90 chili. La mia caviglia è ora gonfia come quelle della sora Lella. Io per gli attori non ho mai avuto tutte queste simpatie, anzi, spesso ci litigo. Durante la lavorazione de L’ultimo Capodanno mi sono infuriato con “un tipo” che voleva andarsene a casa prima della fine delle riprese. Sosteneva che il suo compito fosse finito solo perché la sequenza era allo specchio. Quando diventano famosi non si controllano più. Ma mi ha interessato invece la storia degli attori sconosciuti. La loro frustrazione e la loro malinconia.
E l’idea di questo progetto come è nata?
E’ nata quando Leandro, che sarebbe poi diventato membro del cast, mi ha aggredito nei camerini. Mi ha apostrofato proprio con odio: “Siete tutti uguali! Cazzo, sono bravo, perché non mi fai fare un provino?”. Non glie lo feci fare, per il film che stavo preparando, ma mi venne l’idea per Tre tocchi. Lo invitai a casa e mi raccontò una storia pazzesca, tanto che all’inizio pensai che fosse una balla. Ma non importava, mi aveva convinto. Mi disse che era diventato attore per sfuggire a un destino di violenza e di faide familiari. Aveva spezzato le gambe a un tipo e ogni giorno pregava perché si riprendesse, poi decise di affrontare la sua famiglia e venne portato in una discarica di Bagnoli con la pistola alla tempia, dove fu processato e, per fortuna, rilasciato.
La frustrazione è propria del mestiere d’attore? O è un segno dei tempi di crisi?
L’attore è uno dei mestieri più precari del mondo. Dipendi sempre da qualcun altro: dal produttore che può preferirti l’amichetto o l’amichetta di turno. Dal regista che ti può rifiutare perché sei troppo vecchio, giovane, alto, basso, o perché hai i capelli in un certo modo. Mi sono chiesto: cosa succede all’aspirante attore che torna a casa dopo l’ennesimo provino fallito?
Lei ne ha rifiutati tanti?
Beh, sì. Capita di vedere uno che ci prova e dirsi… ‘bah…’. Cito sempre L’ultimo Capodanno, il provino di Beppe Fiorello. Fu disastroso. Lui è stato un cane, non si ricordava niente, non aveva studiato, non era preparato. Nemmeno gli andava di farlo, il provino. Mi arrabbiai moltissimo perché aveva proprio la faccia giusta, gli dissi di tornare il giorno dopo, ma di farsi vedere solo dopo aver studiato. Lo fece, e riuscì a fare il film, anche se io ero in ansia. Mi chiedevo costantemente se sarebbe stato in grado.
Ma cosa accade quando invece un rifiuto disillude speranze raccolte con tanta fatica e sacrificio?
Di tutto. Violenza, scatti di rabbia. Proprio stanotte due membri del cast hanno litigato furiosamente. Uno era ospite in una trasmissione e ha dimenticato di citare ‘chi non c’era’. Hanno ragione entrambi, è normale. C’è chi ce la fa, chi no, chi ha più opportunità e chi meno. Chi fa una fiction di successo e poi finisce a fare l’acchiappino a Piazza Navona.
Ci parli degli illustri cameo del film…
Con Valentina Lodovini c’è un amore che va avanti dai tempi di Fortapàsc dove interpretava la fidanzata di Siani. Gli altri, Santamaria, Giallini, Sorrentino, si sono semplicemente prestati a partecipare a un film che, ho detto fin da subito, doveva restare a basso costo, per essere il più libero possibile. Non uscirà in tante sale, preferisco che sia un concentrato di sentimento.
Qualcuno l’ha già accusata di lasciare poco spazio alle donne e di dipingerle solo come succubi di un mondo maschile violento e retrogrado…
Quando sento queste sciocchezze mi viene voglia davvero di diventare anti-femminista. Ma non lo sono. Le donne non giocano spesso a calcio e dunque è normale che nel film si parli di maschi. Non mi pare una colpa. Don Seger era accusato di essere fascista, ma lui si definiva ‘liberale’ e giustamente disse: ‘se racconto quel genere di personaggi non significa che io sia d’accordo con loro’. Lo stesso vale per me. Con Il branco ho raccontato la storia di uno stupro dal punto di vista dei carnefici. Era un’idea nuova, coraggiosa, sicuramente dura e violenta ma non era mai stato fatto un film del genere. A Venezia Uma Thurman, che era in giuria, voleva interrompere la proiezione. Io personalmente ne sono orgoglioso e penso sia uno dei migliori film che abbia mai fatto. Ora trovatemi qualcuno che dopo aver visto un mio film torna a casa e violenta una donna. Anzi, fa l’effetto contrario. Se fossi Marco Ferreri, manderei tutti a quel paese. Si ricade sempre nel luogo comune del ‘politically correct’. Ma poi il personaggio di Ida Di Benedetto, per esempio, non subisce affatto. Anzi, maltratta il suo uomo. Gli dice ‘non lavorerai più’, essendo ossessiva. E quella è una storia che è capitata a me. E sono casi in cui non puoi che arrivare a una separazione brusca. Non si può essere sempre buonisti. Si fa del male alle persone e anche al cinema. Per lo stesso motivo ho tagliato la scena in cui Leandro, graziato dai suoi nemici, torna a casa e abbraccia la famiglia. Troppo lacrimevole. Se poi vogliono il cinema politicamente corretto, stupido, noioso e facile, che si accomodino pure… non ne posso più di questo pubblico addormentato da questa distribuzione d’assalto che lo riempie di commedie che nemmeno fanno ridere.
Cosa significa il titolo Tre tocchi?
Concentrazione, visione e velocità. Ci vogliono nel calcio come nella vita.
Ma gli attori ce l’hanno, un’anima?
Ma certo che ce l’hanno. E allora perché alcuni restano in seconda fila? Un motivo c’è, ma non saprei spiegarlo. A parte che io vedo un sacco di attori che stanno in prima fila che meriterebbero di scalare, in terza o quarta. Per questo mi piace lavorare con chi inizia, come in Soldati – 365 all’alba o addirittura con non professionisti, come in Mery per sempre. Ho scoperto il dolore dell’attore. Quando lo chiamano solo per certi ruoli, o magari non lo chiamano affatto.
E che ne pensa di quegli attori che passano alla regia?
E che ne devo pensare? Che sono nemici? Che siamo troppi e ci mancano solo loro? Dipende ovviamente dalla qualità. Kim Rossi Stuart è un regista bravissimo. Andrea Di Stefano con Escobar ha avuto il merito di mettere su un’operazione. Io non sono altrettanto bravo. Certi meccanismi furbi mi sfuggono, infatti faccio un film ogni cinque anni. Questo è il primo che fa eccezione, a un anno di distanza da Cha Cha Cha.
Fino a che punto questo è un film sul calcio?
Non ci fosse stato il calcio, lo spogliatoio, il film non si sarebbe fatto. Il mister della squadra è Giacomo Losi, il capitano della Roma anni 60, un mito del calcio capitolino. Una volta gli ho fatto un tiro e l’ha lisciato. Mi ha detto: “Sei anni fa l’avrei beccata”.
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