Tutto comincia con una fotografia che ritrae i membri delle famiglie ebree Piperno, Sonnino, Fornari, Bises e Di Segni nell’autunno del 1938, l’anno delle leggi razziali, riuniti ad Anzio insieme per l’ultima volta. Molti, non tutti, lasceranno l’Italia in tempo. Sulle tracce dei discendenti, fino alla terza generazione, in America e in Israele, e del loro passato italiano si muove Marina Piperno, una carriera come prima produttrice cinematografica italiana. La sua ‘opera prima’ risale al 1961 ed è 16 ottobre 1943 tratta dall’omonimo libro di Giacomo Debenedetti sul rastrellamento del ghetto di Roma, quando 1024 ebrei furono deportati dai nazisti nei campi di sterminio dove quasi tutti morirono.
Marina Piperno è la protagonista di Diaspora, ogni fine è un inizio diretto dal suo compagno di vita e lavoro Luigi Faccini e che viene presentato in anteprima oggi come Evento speciale al 38mo Festival di Cinema e Donne di Firenze.
Il film è un viaggio tra memoria e presente lungo 4 ore, distribuito da Luce Cinecittà, che parte da Pitigliano e prosegue a New York, nel deserto del Negev, al mausoleo di Ben Gurion, a Gerusalemme, Tel Aviv, Boston, al ghetto di Roma. “Il titolo iniziale era Tracce d’amore perché il film partiva da questa fotografia di una famiglia molto coesa che si dissolve a causa delle leggi razziali – spiega Faccini – Sono un frequentatore di archivi fotografici, m’innamoro della gente guardando le loro facce e vestiti con la lente d’ingrandimento. Sfogliando questi album di fotografie c’erano tutte queste presenze in qualche modo perdute, famiglie partite per l’America con le quali i rapporti si erano fatti labili. Marina ha avuto bisogno non solo di rafforzare la propria identità ebraica, anche se lei è laica e non ortodossa, un’ebrea che ha perso il filo religioso ma ha conservato il rispetto e la passione per il popolo di cui fa parte”.
Un viaggio che per la protagonista ha una valenza identitaria, di ricostruzione della densità affettiva di una famiglia. Di qui il titolo originario, Tracce d’amore. “Roberto Cicutto, che è stato allievo da Marina, ci ha proposto un titolo più energico, che suggerisse meglio ed è venuto fuori Diaspora come entità vera, perché le famiglie fuggono e si salvano solo grazie ai soldi – dice Faccini – Con una sorta di sottotitolo, Ogni fine è un inizio, nel senso della continuità ebraica. Nonostante la Shoah, nonostante le persecuzioni si afferma questa enorme capacità di sopravvivenza, una tenacia che non viene soltanto da capacità commerciali o imprenditoriali, ma dal fatto che non c’è un ebreo che sia analfabeta: tutti studiano, un po’ meno le donne perché c’è un privilegio nei confronti dei maschi”.
Diaspora, ogni fine è un inizio s’inquadra in un percorso cinquantennale per Faccini e Piperno di ricerca ed esperienziale che sta alla base di tutto il loro cinema con valenze sia antropologiche che storiografiche. “Da 40 anni stiamo insieme come marito e moglie e come cineasti che girano per il mondo documentando quelle situazioni e stimoli che modificano la nostra vita. Noi lavoriamo sulla nostra crescita personale, andiamo a scuola di realtà, Marina ed io siamo organicamente zavattiniani. Nel senso che terminato il grande cimento con il cinema fatto di troupe, da quasi 20 anni lavoro da solo con strumenti digitali. E Marina è la mia complice perché ha prodotto per me e con me una trentina di titoli. E nel frattempo ho trasformato Marina in narratrice, in testimone quando si tratta di argomenti ebraici, e in una strabiliante viaggiatrice come in questo film”.
Il film si apre con una citazione dal libro “Gli ebrei e le parole” di Amos Oz e della figlia. “E’ lo scrittore di riferimento per Marina che preferisce una letteratura più realistica e concreta e dunque mette al primo posto Oz, seguito da Yehoshua, ma non Grossman amato come cronista e non come scrittore, troppo concettuale e psicoanalitico”.
Prossime tappe di Diaspora, ogni fine è un inizio? Oltre all’uscita in homevideo probabilmente a inizio 2017, è in via di preparazione un evento a New York al Levi Center.
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