Un film che è “una casa di tanti sguardi che ho visto, sostenuto, evitato, adorato … Un film che parla di dolore come ingrediente necessario alla felicità”, così Luca Zingaretti racconta La casa degli sguardi, suo primo film da regista cinematografico, che debutta alla Festa del Cinema di Roma.
È Daniele Mencarelli a offrire il La, perché il film è liberamente ispirato al suo omonimo libro: poesia e bellezza, sinonimi e compagne, una stessa missione, ecco l’essenza. La casa degli sguardi è purezza del nucleo famigliare, reso palpitante da Marco, un Gianmarco Franchini pregno di dolore e rabbia soprattutto concentrate nello sguardo – perso, umido, affamato o disarmato, e da suo padre (Luca Zingaretti); il film è anche una storia sulla nobilità del mestiere, quale radice assestante, e possibile terreno di connessioni umane.
“Non ho mai deciso di fare una regia ma negli anni, frequentando i set, ho cominciato a guardare le cose in maniera diversa e appartengo a una generazione che quando vuol fare le cose vuole sperare di farle bene; quando ho incontrato la storia di Mencarelli mi si è accesa una luce e ho pensato: ‘questa, la saprei raccontare’. È una storia che mi ha colpito per la rinascita di una persona, la straordinaria capacità di rialzarsi e incamminarsi verso la luce che porta verso l’uscita dal tunnel, oltre a tematiche come il dolore, che ti permette la catarsi, mentre noi – come società – l’abbiamo demonizzato e non è un bene. Inoltre, c’è l’importanza dell’amicizia, di un amore che ti rispecchia e ti dà la possibilità di esistere: di Marco seguiamo una tranche de vie, senza dare un finale perché di doman non v’è certezza, incentrando tutto il racconto seguendo le inquietudini di un essere umano giovane, per cui si fa fatica a trovare un punto fermo perché, come hai fatto il punto nave, s’è spostato già tutto, e questo mi ha fatto pensare che valesse la pena raccontare una storia”, spiega Zingaretti.
L’empatia è un dono, ma quando davvero profonda può essere anche una condanna, o quantomeno una sofferenza, e Marco – ventenne – possiede una spiccata sensibilità nel respirare il dolore di ciò che lo circonda, emozioni che indirizza nella poesia, ma non basta, perché inscatolare queste sensazioni non è possibile e così la bellezza e la “terapia” della scrittura non sono sufficienti, e la necessità di alleggerirsi la cerca nello stordimento alcolico e da droghe, malefiche e solo momentanee “medicine” per il suo male di vivere ma Luca Zingaretti non ha dubbi che “la difficoltà maggiore è stata cercare di stare coscientemente alla larga dal melò, dall’emozione facile, bastava un passo per finire in un territorio che m’interessava poco” e, sullo specifico malessere di Marco, Zingaretti pensa che “l’inquietudine è per antonomasia qualcosa che deve appartenere a un periodo della nostra esistenza, però ci sono momenti (storici) in cui è reso drammatico da quello che il mondo vive, e per esempio abbiamo un’emergenza climatica che non vogliamo vedere, come sta per succedere un evento migratorio di enormi proporzioni: io penso a chi debba oggi immaginarsi il proprio futuro, se non è impaurito, è quantomeno atterrito, spaventato. Il protagonista ha 21 anni, ha anche appena vissuto la perdita della mamma che si prendeva cura della sua sensibilità, per cui il suo mal di vita, la sua sensibilità, gli fa vivere tutto in maniera esagerata: quando scopre che il dolore non è evitabile uscirà fuori, perché il dolore si deve accogliere, per riacquistare la capacità di stare nelle cose, senza fuggirne”.
È evidente cosa cerchi Marco, la fuga, una via di fuga, ma da che cosa? In primis, da sé. Spera che quella continua pioggia di alcol dentro di sé possa lavare via da dentro il suo sentire, spera che scorrendo dalla bocca alle budella sia come un torrente che pulisce e porta via, fino ad anestetizzare, unico medicamento per sopportare di vivere. Per Franchini, “l’incontro con il personaggio è stato bellissimo, sin dalle venti righe del provino, poi ho letto il libro e la passione è aumentata, finché ho scoperto di essere stato scelto e lì, oltre alla passione, s’è insinuata una paura, un’inquietudine, perché nella lettura ero distaccato, ma poi dover vivere quelle emozioni è stata una paura, perché lui ha molto dentro, ha un modo suo di sentire, è una persona con una sensibilità tale da aver la pelle così sottile che basta un fiore a bucargliela. Sentirlo dentro, a livello viscerale è stato bellissimo, faticoso perché andava in luoghi bui e profondi, ma altrettanto in luoghi lucenti e bianchi: io l’ho immaginato come un’anima pura da proteggere”.
Il protagonista, lo racconta Zingaretti, l’ha scelto al primo provino: “per il mio bagaglio d’attore avevo esattamente chiaro cosa volessi e sono stato fortunato con lui – e con quelli della squadra -, perché dire di uno di 20 anni ‘è bravo’ significa tutto e niente, ma lui ha un’anima che rielabora le cose: con lui ho lavorato tanto sul set, con la consapevolezza di quando un attore abbia bisogno di un calcio nel sedere o di un abbraccio; lui ha un’anima vibratile, non ha paura di farsi vedere fragile, sofferente, e mi ha colpito che mi abbia sempre riproposto la qualità energetica che volevo ma mai imitandomi, a riprova del fatto che non si smetta mai di imparare”.
Se nella storia una mamma non c’è, perché non c’è più su questa terra, e probabilmente la voragine del malessere estremo di Marco nasce anche da questo grande buco di dolore, il papà sì, osserva e c’è…, ma spesso impotente dinnanzi all’enormità del sistema emotivo di un altro essere umano, seppur sia il frutto di se stesso. Eppure, è proprio l’essere umano – anzi diversi, tanti, piccoli, e davvero sofferenti, i bimbi malati del Bambin Gesù – a scatenare qualcosa: Marco li sfiora, perché in quell’ospedale entra come addetto alle pulizie, eppure li vede, ha uno sguardo di primo piano su quel dramma, sull’infanzia lacerata, ferita, condannata, per cui non resta imperturbabile. E infatti Zingaretti molto tiene anche al tema del lavoro, qualcosa di “fondamentale perché ti radica, ti identifica: tu ti definisci attraverso ciò che fai, che poi è il dramma di chi il lavoro non ce l’ha, perché si sente perduto, non è più niente, al di là dell’aspetto economico. Tanto è vero che uno dei mattoni della sua base su cui costruirsi è il lavoro: fare i conti con i limiti, gli orari, il rispetto degli altri, le gratificazioni, tanto che il suo primo sorriso arriva dopo aver pulito un bagno sporco di feci, che non è la cosa più nobilitante, ma lì c’è il potere salvifico del lavoro, perché sì, ti definisce”.
Un film, si sa, si scrive anche con la musica, qui di Michele Braga che per Luca Zingaretti “è un uomo di grandissima sensibilità, lui ha visto il film montato a metà ed è uscito in lacrime: lui in primis mi ha detto che si dovesse lavorare in sottrazione, che il silenzio dovesse dominare, per non sovraccaricare, mettendo poche musiche ma giuste. Lui, avendo visto il film a metà ed essendone entrato in empatia, sapeva quello di cui avesse bisogno. Michele è entrato in punta di piedi e mi son trovato d’accordo sul fatto di entrare su un terreno pericoloso, perché le musiche potevano togliere emotività; l’arte del musicista ha inciso in maniera qualitativa straordinaria anche perché in grado di cogliere la cifra quantitativa della sua sapienza nel film”.
La casa degli sguardi è una produzione Bibi Film e Clemart con Rai Cinema e Stand By Me e Zocotoco.
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