VENEZIA – Amato oppure odiato, Luca Guadagnino è un regista che divide e accende gli animi. L’ultimo film, Io sono l’amore, dopo un’accoglienza tiepida al Lido, ha riscosso un grande successo all’estero, con incassi di 5 mln di dollari negli Usa, una nomination ai Golden Globe e una agli Oscar (per i costumi di Antonella Cannarozzi). Ora il 44enne cineasta siciliano è tornato con A Bigger Splash, la sua prima volta in concorso a Venezia, e subito ha scaldato la discussione. Il remake del film di Jacques Deray La piscine (1969) ha tutti i pregi e i difetti del suo cinema (al suo attivo quattro lungometraggi e molti documentari e opere eccentriche): estrema cinefilia, gusto estetico che ad alcuni potrà sembrare estetizzante, eleganza formale alla Visconti. Qui ad esempio si muove tra il Viaggio in Italia di Rossellini e l’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni, mentre il titolo nasce da un quadro di David Hockney. Anche i temi sono ricorrenti, il desiderio fisico, la violenza nei rapporti tra le persone, il contrasto tra mondi estremi, da una parte il jet set autoreferenziale, dall’altra la povera gente di Pantelleria, l’isola dove la vicenda è ambientata. In breve, una grande rock star in convalescenza dopo un intervento alle corde vocali e quindi muta (l’attrice feticcio di Guadagnino, Tilda Swinton), si gode l’elegante dammuso con piscina insieme al compagno Paul (Matthias Schoenaerts), reduce da un tentativo di suicidio ed ex alcolista. Ma a interrompere la quiete coniugale arriva l’ex amore di Marianne, Harry (Ralph Fiennes), produttore discografico dei Rolling Stones logorroico e cocainomane che è ancora innamorato di lei o almeno vorrebbe riconquistarla. Harry è accompagnato dalla poco più che adolescente Penelope (Dakota Johnson), aspirante lolita che è sua figlia ma sembra la sua amante. Mentre in paese si festeggia il patrono San Gaetano tra i quattro scorrono correnti di desiderio e di odio neanche tanto sotterraneo.
A Bigger Splash, finanziato da StudioCanal e prodotto da Frenesy in associazione con Cota, uscirà il 26 novembre con Lucky Red. È già stato venduto in Francia, Regno Unito, Germania, Australia, Nuova Zelanda.
Guadagnino, come si è posto rispetto al film di Deray.
È stata StudioCanal a propormi questo remake, dopo Io sono l’amore. All’inizio avevo detto “no, grazie”, poi quando sono tornati alla carica per la terza volta mi sono ricordato che ai desideri altrui bisogna sempre andare incontro. Il film di Deray, girato in un momento in cui le Nouvelles Vagues esplodevano dappertutto, ma antitetico rispetto a quel momento storico, l’avevo visto da ragazzino e poi mai più. Con lo sceneggiatore abbiamo provato a rivederlo, ma il blue ray non funzionava…. Quella storia a quattro personaggi con il suo erotismo era un territorio conosciuto che mi permetteva di filmare l’invisibile, il desiderio come forza che muove tutto. Parlava di temi che mi attraggono da sempre: la rinuncia, il rifiuto, la violenza nei rapporti tra le persone.
Come ha lavorato alla scrittura, insieme a David Kajganich?
Le colonne portanti del film sono il concetto del desiderio e l’alterità violenta e irriducibile della realtà rispetto ai personaggi chiusi nel loro mondo.
Perché ha scelto Pantelleria?
L’avevo visitata a 14 anni e ricordo che mi aveva scosso, è un’isola vulcanica combattuta tra scirocco e maestrale, con una natura potente. È nata come prigione e si è evoluta come luogo turistico.
Ci spiega la scelta del mondo del rock ‘n’ roll di cui sia Harry che Marianne fanno parte e che viene costantemente evocato anche nei flash back?
Il rock è un’esperienza irriducibile di piacere, segno di libertà assoluta, ma anche della sua sconfitta. Harry rappresenta questa anarchia.
Pantelleria è anche simbolo di quell’ultima frontiera dell’Europa e della grande e drammatica migrazione di interi popoli, una migrazione che viene più volte evocata nel film e anche sfruttata dai personaggi a proprio vantaggio in modo meschino.
Il mio cinema nasce dalla lezione di Renoir di lasciare aperta la porta alla realtà. Pantelleria è una terra di frontiera, ma più che il tema dei migranti o dei rifugiati di guerra che sarebbe sgradevole ridurre a un semplice “argomento”, mi interessa la natura dell’alterità. Come ci confrontiamo con l’altro nella nostra chiusura mentale? La rockstar che ha perso la voce, contesa tra due uomini, prova a utilizzare la presenza dei migranti per salvare il suo privato anche se, mentre lo fa, è consapevole dello scacco etico a cui si è condannata.
È spiazzante il finale, che vira dal dramma alla farsa e che sembra decisamente una presa in giro.
Ho diretto a Verona il Falstaff e ho messo in questo film qualcosa di quell’ultima opera di Verdi, che si conclude con l’affermazione che ‘tutto è burla’. Il personaggio di Harry è portatore di questo aspetto beffardo. Poi mi piace spiazzare me stesso e lo si può fare mutando registro. A Bigger Splash inizia come un idillio campestre diventa sciarada, poi si incupisce e si radicalizza, vira verso la brutalità di un gesto omicida…
E alla fine arriva Corrado Guzzanti nei panni del maresciallo dei Carabinieri.
È visto dalla prospettiva dei personaggi stranieri, come un alieno. È un rappresentante della legge ma si comporta come un fan di Marianne, mette il suo amore cieco per una persona che non conosce davanti alla sua capacità di applicare la legge. C’è ironia in questo personaggio, ma forse per noi italiani è più difficile vederla. E comunque Corrado è un attore sublime.
È vero che è stata Tilda Swinton a suggerire di rendere Marianne afona?
Sì, ascolto molto gli input degli attori, con Tilda lavoriamo insieme da sempre, siamo partners in crime come dice lei. Lei veniva dalla perdita della madre e mi ha chiesto di non farla parlare. Questo crea un contrasto con il fiume di parole di Harry.
Il film ha suscitato anche rumorosi dissensi alle prime proiezioni per la stampa.
I fischi fanno parte della natura della Mostra di Venezia e della moltiplicazione delle opinioni, che ognuno esprime come crede.
Pensa che A Bigger Splash sia rivolto più al pubblico internazionale che a quello italiano, che da noi possa generare incomprensioni anche per una certa rappresentazione da “Italietta”?
Sgombriamo il campo dall’equivoco per cui sarei un regista che piace agli americani, detto in modo svilente. Gli ammiratori più incondizionati di Io sono l’amore vengono dalla Corea, dalla Svezia, dal Portogallo e dalla Turchia. Il mio cinema non è la declinazione di una certa Italia prêt-à- porter per un gusto neutro internazionale forgiato dal colonialismo americano. La vera questione è come ci rapportiamo noi italiani con la rappresentazione della nostra realtà. Il tè nel deserto, straordinario film del mio maestro Bernardo Bertolucci, parlava di americani in Nordafrica, e in America questa rappresentazione fu vissuta in modo negativo. Ma vende cartoline chi usa il localismo per il proprio tornaconto e non è il mio caso.
E la scelta del cast?
La storia del nostro cinema è fatta di grandi attori stranieri, “corpi alieni”, da Barbara Steel a Lou Castel a Ingrid Bergman. Come diceva Truman Capote “il cinema non avendo confini non ha geografia”. Questo cast non nasce dall’imperativo del glamour, ma dal piacere di lavorare con personalità potenti con cui è bello anche condividere la propria vita.
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