Lorenzo Vigas: “America Latina alla ricerca di un padre forte”

La caja riporta il venezuelano Lorenzo Vigas (Leone d'oro con Desde allà nel 2015) al concorso veneziano con un film sulla paternità e sulla manipolazione delle coscienze


VENEZIA – La ‘cassa’ del titolo è quella che contiene le poche spoglie rimaste del padre di Hatzin, un adolescente di Città del Messico. Sono le ossa trovate in una fossa comune insieme a una carta d’identità sgualcita. Il ragazzo non ha praticamente conosciuto suo padre e quando per la strada intravede un uomo che somiglia molto a quella foto, si attacca alla flebile speranza che il genitore sia vivo e che ci sia stato un errore.

La caja riporta il venezuelano Lorenzo Vigas (Leone d’oro con Desde allà nel 2015) al concorso veneziano con un film sulla paternità e sulle insidie che la ricerca a tutti i costi di un padre nasconde in sé, con il piccolo protagonista via via indotto a compiere azioni sempre più scellerate alla ricerca di un punto di riferimento e per ottenere approvazione e sentirsi parte della ‘famiglia’.

“In Messico e nel resto dell’America Latina esiste una quantità incalcolabile di famiglie smembrate, per le quali l’assenza della figura paterna è una realtà considerata ormai normale. Molti giovani crescono forgiati da questa assenza. E’ una questione fondamentale per definire la personalità di un individuo che mi ha particolarmente interessato come regista. Anche l’identità del nostro continente è collegata a questa realtà. Non è un caso infatti che in America Latina fenomeni come il peronismo o il chavismo abbiano lasciato un segno sociale, politico e umano così profondo. La figura del leader ha finito per riempire, da un punto di vista psicologico, quel vuoto, quel bisogno, rappresentando quel padre che non è mai stato presente in famiglia e di cui noi siamo alla disperata ricerca”.

La caja – spiega ancora Vigas – è l’ultimo capitolo di una trilogia che ho dedicato alla paternità in America Latina. La prima parte, il corto Los elefantes nunca olvidan, è stato il seme che ha poi prodotto il secondo capitolo, il mio lungometraggio d’esordio Desde allá. Non so perché ho la necessità di esplorare questo tema, è un’ossessione per me. Non nasce da un’esperienza personale, ma, come dicevo prima, dal padre come figura archetipica, il padre idealizzato”. Il giovane Hatzin, oggi sedicenne e studente, ha rivelato che per girare il film, è stato obbligatorio avere a che fare con i cartel del narcotraffico. 

Vigas, lei è nato in Venezuela ma da venti anni vive e lavora in Messico.

Ho un cuore messicano. Sono molto sensibile al tema delle fosse comuni, delle sparizioni di donne nel Messico settentrionale e dei lavoratori sfruttati dalle fabbriche di indumenti con orari impossibili e condizioni proibitive, soggetti a intimidazioni violente se chiedono diritti normali, come si vede nel film. Tutto questo lo racconto attraverso la storia di un ragazzino che cerca il padre. Ma credo che in fondo il tema principale sia quello dell’identità, un giovane che cerca la sua identità, l’identità delle ossa dei desaparecidos che vengono ritrovate e l’identità di un Paese giovane che ancora sta cercando di collocarsi. 

La menzogna è uno dei temi ricorrenti del film, scorrono bugie tra il ragazzo e l’uomo che lo ‘adotta’ e anche bugie nei confronti dello spettatore, che non sa cosa pensare, perché alla fine non si capisce dove stia la verità.

In Messico bisogna saper mentire per fare qualcosa nella vita. E’ molto triste ma è la realtà. E poi certo, c’è anche la menzogna nei confronti dello spettatore che non sa se credere al presunto padre, visto che una delle cose che insegna al ragazzo è proprio quanto siano importanti le bugie. 

Come avete trovato il bravissimo Hatzin Navarrete?

Abbiamo visto molti ragazzini 13enni nelle scuole e fatto decine di provini per scegliere il protagonista. Sapevo che il ragazzo doveva prendere il film sulle sue spalle, era una grande responsabilità per qualcuno che non avesse mai recitato. Quando ho trovato Hatzin ho pensato che poteva essere quello giusto, ma c’è sempre un margine di rischio, specie in una produzione relativamente grande per il Messico come La caja. Per fortuna, il primo giorno di riprese ci siamo resi conto che lui aveva qualcosa di speciale. Anche perché ha avuto un’infanzia problematica con suo padre e anche traumatica, e questo ha arricchito il personaggio. 

Lei e Michel Franco condividete la produzione di questo film e di Sundown, altro titolo del concorso. Come si sente a essere in competizione contro se stesso?

Sono molti anni che Michel ed io ci conosciamo e collaboriamo e quest’anno, per puro caso, siamo tutti e due in concorso a Venezia. Per noi non è un problema, anzi ce la stiamo godendo. 

 

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