E’ tempo di tornare nella Terra di Mezzo. Dopo 10 anni di attesa, cambi di timone, problemi produttivi e disavventure d’ogni tipo – tipico però delle grandi produzioni – il 13 dicembre arriva finalmente in sala Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, atteso primo capitolo della trilogia prequel de Il Signore degli Anelli, sempre per la regia di Peter Jackson (dopo l’abbandono di Guillermo del Toro, comunque creditato in testa come collaboratore alla sceneggiatura). La sfida era anche quella di omogeneizzare il prodotto con quanto fatto in passato, oltre che sfruttare al massimo l’appeal commerciale del brand: di qui, l’idea di costruire una nuova trilogia, anche se il romanzo originale non supera le 350 pagine (nulla in confronto alle 1.400 de Il Signore degli Anelli). Il timore che ne venisse fuori qualcosa di noioso e artificialmente gonfiato c’era, data anche la struttura della trama, piuttosto semplice e orientata – almeno nella mente dell’autore – per lo più a un pubblico di ragazzi.
Timore che possiamo intanto sfatare, almeno per quanto riguarda questo primo episodio. Jackson e le sue sceneggiatrici storiche Philippa Boyens e Fran Walsh (che è anche sua moglie) approfittano dello svolgimento ‘disteso’ per approfondire la psicologia dei personaggi, creare atmosfera e collegamenti diretti all’altra trilogia, usando anche materiale che Tolkien aveva aggiunto nell’appendice del suo capolavoro, e a parte una certa lentezza nella parte iniziale, funzionale alla presentazione dei molti personaggi, il film – un colosso di 180 minuti – scorre con leggerezza verso il climax finale, tra scenari da sogno (parzialmente naturali, parzialmente ricostruiti in cgi), scene di battaglia e creature fantastiche rese con grande realismo. Nel libro, i 13 nani che accompagnano lo stregone Gandalf (ancora Ian McKellen) e il protagonista Bilbo (Martin Freeman) sono grossomodo tutti uguali e rispondenti allo stereotipo dell’ometto basso, tozzo e barbuto. Nel film, Jackson ha scelto di diversificarli molto sia nell’aspetto che nel carattere, dando vita a una vivace combriccola che contribuisce anche a smorzare i toni con battute e gag ironiche.
Insomma, Un viaggio inaspettato è perfettamente in linea con gli altri film della serie. Forse anche troppo. Lo schema di sviluppo è molto simile a quello de La compagnia dell’anello, primo capitolo della passata trilogia: formazione del gruppo, definizione della missione, viaggio, incontro con mostri, sosta a Gran Burrone (dove fanno la loro ricomparsa volti noti come quelli di Re Elrond/Hugo Weaving, Saruman/Christopher Lee e Galadriel/Cate Blanchett), discesa agli Inferi – là le miniere di Moria, qui la tana dei Goblin – e poi risalita ‘a riveder le stelle’. Perfino il principale antagonista, l’Orco Bianco Azog il Profanatore, somiglia molto al tremendo Uruk-Hai del primissimo episodio. Non è un male. Diciamo che Jackson ha scelto un sentiero sicuro, ma inevitabilmente ci si pone la domanda su come sarebbe stato questo film se fosse rimasto nelle mani del visionario del Toro.
Veniamo alla tecnica: Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato è girato in HFR 3D. La sigla sta a indicare un frame rate più alto nella versione stereoscopica. Ovvero, invece che 24 fotogrammi al secondo, come capita di solito, ne guarderete scorrere 48, una velocità che, teoricamente, l’occhio umano dovrebbe percepire come più vicina a quel che si vede fuori dallo schermo, nella realtà. La scelta, secondo Jackson, è stata fatta proprio per migliorare la qualità della stereoscopia: “Il 3D diventa molto meno fastidioso – ha detto – e gli occhi si affaticano meno. Che poi è uno dei motivi per cui a molta gente non piace il 3D, perché l’occhio è costretto a compensare le sfocature date dal rate basso”. In questo senso, l’operazione è riuscita: le carrellate sono molto più fluide, gli effetti di sdoppiamento dell’immagine sono ridotti al minimo e anche la luminosità e la nitidezza ne guadagnano visibilmente.
Tutto questo, però, si paga. Di fatto, l’impressione che arriva allo spettatore è di essere di fronte a immagini dall’impatto molto ‘televisivo’, come in un documentario (nel migliore dei casi) o in una telenovela (in certe sequenze dove l’eccessiva chiarezza svela anche la natura fittizia di set e costumi). Addirittura, in alcuni passaggi, specie quelli dove i personaggi compiono movimenti lunghi e articolati, la velocità raddoppiata ricorda un po’ le comiche di Benny Hill, con non voluti effetti esilaranti. Insomma, per fare le cose più realistiche, si finisce per ottenere esattamente l’effetto opposto.
C’è da ammettere, però, che dopo un po’ l’occhio si abitua. E d’altro canto, dietro può esserci una filosofia: “Scegliere di girare a 48 frame ci avvicina il più possibile all’illusione della visione della vita reale – continua Jackson – Il motion blur si riduce per ogni fotogramma e migliora la nitidezza dell’immagine, come regista cerco di rendere i miei film coinvolgenti: voglio spingere le persone fuori dalla poltrona del cinema e lanciarli al centro dell’avventura”.
Insomma, il tentativo è quello di rendere la Terra di Mezzo un mondo verosimile fino al parossismo, dove qualsiasi operatore televisivo potrebbe muoversi, camminare e realizzare il suo reportage.
E’ questo il futuro del cinema fantasy? Lo decideranno gli spettatori che – ricordiamolo – possono comunque scegliere di vederlo in versione ‘standard’. La tendenza, del resto, è figlia anche del genere ‘mockumentary’ tanto in voga negli ultimi anni, da The Blair Witch Project a Rec, da Cloverfield a Trollhunter. E non lo citiamo a caso, dato che anche Lo Hobbit è pieno di Troll e creature maligne. Che però, a differenza di quanto abbiamo visto nella precedente trilogia, non si limitano a ringhiare e sbuffare ma sono in grado di parlare e ragionare e appaiono decisamente più ‘umane’, mostrando pure una certa coscienza ‘di classe’. Niente di strano, dopotutto lo facevano anche nel romanzo – anzi, proprio facendo ‘chiacchierare’ un gruppo di Troll, Bilbo si salvava da una brutta situazione, scena che qui è fedelmente riportata – ma la differente caratterizzazione rispetto al passato sta già facendo discutere molto, su Internet, i puristi della coerenza. Meno i tolkeniani, che conoscono benissimo la differenza tra ‘Stone Trolls’, intelligenti e loquaci, e ‘Cave Trolls’, aggressivi e animaleschi.
E se le comparsate ‘apocrife’ di Elijah Wood nei panni di Frodo e di Ian Holm in quelli del ‘vecchio Bilbo’ sono certamente concessioni allo star system, rappresentano anche piacevoli segnali di continuità. Non si può dimenticare infine Andy Serkis, che non solo torna a interpretare digitalmente l’ambiguo Gollum – ormai collaudatissimo – ma dirige anche le riprese della seconda unità. Se mai si decidesse di trasporre anche il Silmarillon, anello mancante dell’epopea tolkeniana, chissà, magari l’incarico potrebbe spettare a lui.
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