PESARO – Lino Banfi protagonista alla Mostra di Pesaro. Un accostamento inedito che si deve soprattutto a Walter Veltroni, new entry del comitato scientifico e autore di un piccolo contributo sul comico pugliese tratto da Ciak e ospitato in coda al volume sul cinema di genere: Il mio B movie di serie A. Metafora calcistica per proporre L’allenatore nel pallone di Sergio Martino come esempio di “quei film che, a dispetto della qualità della sceneggiatura, della fotografia, della recitazione, entrano nell’immaginario collettivo”. “Il film è magnetico – scrive l’ex sindaco di Roma – invita alla ripetizione della visione come certe patatine fritte che non si riesce a smettere di mangiare”.
A dargli ragione, la Piazza di Pesaro, affollata e divertita per la serata che ha visto l’ex Oronzo Canà protagonista assoluto di un’intervista condotta da Veltroni con l’affettuosa complicità del fan assoluto. Dagli studi in seminario agli inizi nell’avanspettacolo, dai film scollacciati al sodalizio con Franchi e Ingrassia e al Medico in famiglia, di cui avrebbe voluto fare una terza serie, il quasi 83enne Pasquale Zagaria da Andria si è raccontato a ruota libera, senza tralasciare qualche accenno alla politica – in particolare le simpatie per Berlusconi, mentre oggi è membro della commissione italiana all’Unesco per volontà di Luigi Di Maio.
Lei ha raccontato il primo incontro con Totò, che la consigliò di cambiare il nome d’arte Lino Zaga perché il diminutivo del nome porta fortuna mentre il diminutivo del cognome porta sfiga. Che altro ricorda di quel grandissimo del nostro palcoscenico? Si è in qualche modo ispirato a lui?
Ognuno di noi comici si è ispirato in un modo o nell’altro a Totò. Io sono tuttora onorato di aver conosciuto di persona il principe. Dopo quel primo incontro, quando ero poco più che un ragazzino, l’ho rivisto nel ‘65, due anni prima che morisse, quando già non vedeva più. Eravamo al Sistina per un festival dell’avanspettacolo organizzato da Garinei e Giovannini. Io ero con la compagnia di Beniamino Maggio che vinse il primo premio. Sul palco c’erano Fabrizi, Totò, Sophia Loren, Macario, Carlo Dapporto. Tutta la sala in piedi inneggiava a Totò, ma mia figlia Rosanna di due anni, dal loggione, strillava papà.
Mentre Napoli aveva una grande e profonda tradizione teatrale, la Puglia era tutta da inventare.
È vero, la Puglia non aveva le tradizioni teatrali della Sicilia, con Musco e Pirandello e tantomeno di Napoli con la sua ricchissima scena teatrale, da Totò a De Filippo. Bisognava aprire la strada. L’ho fatto, in qualche modo, con un dialetto pugliese prima esasperato, poi via via meno evidente, inventando la figura dell’apparente ignorante. Oggi Checco Zalone dichiara che Banfi gli ha aperto la strada. E’ vero che ho inventato un modo di parlare: che chezzo non me l’hanno mai censurata; chepa di chezzo neppure. Nessuno si scandalizza per queste parolacce, però non posso pronunciare altre parole come pane o chievo perché scatta il doppio senso.
Cosa pensa di Zalone, lo considera suo erede?
È un bravissimo attore contemporaneo molto preparato e con tanta voglia di fare. Ha un gran fardello perché deve incassare sempre di più e oggi il botteghino si è ristretto. Gli auguro ogni bene con il nuovo film girato in Kenya che uscirà a Natale.
È vero che inizialmente non voleva accettare il ruolo che le ha proposto in Quo vado?
Ho fatto più di cento film da protagonista, mi sembrava riduttivo quel piccolo ruolo. Ma lui mi ha spiegato che avermi era un tributo di riconoscenza. Quel senatore rappresenta tante cose, un politico italiano di stazza che solo io potevo fare. E il personaggio è piaciuto, specie ai politici.
Cosa sta preparando adesso?
Sto scrivendo una sceneggiatura per una fiction di 4 puntate con Albano Carrisi da girare in Puglia. Ancora non sappiamo se la faremo con la Rai o con Mediaset.
Qui a Pesaro si parla di rivalutazione del cinema di genere. Si sente coinvolto?
Bisogna dire grazie a critici come Marco Giusti che con Stracult ha saputo fare un cocktail del film cotto e mangiato con il film di impegno, della vera cultura con quella che un tempo veniva considerata non cultura. Oggi siamo tutti più… giusti. Grazie anche a Veltroni e ai giovani che uniscono l’utile al dilettevole, i film miei che erano carta straccia oggi sono cult. È la stessa gioventù che ha cancellato l’omofobia. Bisogna far capire che si può essere plurilaureati ma incapaci di ascolto, mentre poi arriva uno che non ha studiato ma riesce a interessare i ragazzi, a trasmettere qualcosa.
Si considera incompreso dalla critica?
C’è stato tanto snobismo, ma sono anche stato nominato cavaliere dal presidente Pertini, ho lavorato 20 anni con l’Unicef, adesso sono con l’Unesco e ho sicuramente l’affetto anzi l’amore di tutti gli italiani. Molti giornalisti, però, mi hanno confessato che andavano a vedere i miei film di nascosto.
Ha qualche rimpianto da questo punto di vista? Magari avrebbe voluto misurarsi in un ruolo drammatico.
Sogno di fare un film che somigli a Un borghese piccolo piccolo nel ruolo che fu di Alberto Sordi. Se sapessi scrivere me lo scriverei da solo.
Qual è il film a cui si sente più legato tra le decine e decine di pellicole interpretate?
Dio li fa e poi li accoppia di Steno, dove facevo un salumiere gay. Era bello e poetico anche se un po’ troppo insistito. Poi Il commissario Lo Gatto che sta per compiere 33 anni e che festeggeremo l’11 luglio a Favignana. Era la giusta misura per me e Dino Risi mi aiutò a smussare l’accento pugliese, in quel mix di commedia e dramma. Però i miei film li rifarei tutti. Mi piace dire che ho fatto una carriera didattica: non ho la laurea ma sono stato bidello, professore, preside. Mi mancava solo di fare il provveditore.
Come vede il cinema italiano di oggi?
Non si girano più tanti film come prima, quando si facevano 200 film l’anno. Adesso è tutto difficile, anche trovare una distribuzione. Non è facile convincere una famiglia di quattro persone a uscire da casa, trovare parcheggio, magari prendere la multa, comprare ai bambini i popcorn e la pizza.
Avati ha raccontato che in Regalo di Natale avrebbe voluto lei nel ruolo che poi andò ad Abatantuono.
Sì, dissi di no per fare Il commissario Lo Gatto. Un po’ avevo paura di un film drammatico. E mi sono pentito. Ma adesso che ho fatto ammenda pubblicamente, mi aspetto un premio, magari Avati mi chiamerà a lavorare con lui.
Una dichiarazione d’amore per il Giappone e la sua estetica cinematografica, tra Mizoguchi e Wenders. Marco De Angelis e Antonio Di Trapani tornano alla Mostra di Pesaro con White Flowers. Protagonisti Ivan Franek e Hayase Mami tra thriller metafisico, ghost story e poesia d'amore
La polemica tra il critico inventore di Fuorinorma e l'ideatore di Stracult è stata al centro della tavola rotonda sul cinema italiano di genere organizzata alla Mostra di Pesaro attorno al libro Marsilio Ieri, oggi e domani
Il film di Juan Palacios ottiene il Premio Lino Micciché per il miglior film in concorso, riservato a sette opere prime e seconde, e il premio della giuria studenti alla Mostra di Pesaro
La Mostra di Pesaro ha celebrato il trentennale della storica trasmissione fondata su Rai 3 da Enrico Ghezzi. Che sta per lasciare per raggiunti limiti di età. Che ne sarà di un cineclub diffuso che ha formato generazioni di critici e appassionati con le sue visioni libere dalla dittatura dello share?