‘L’esorcismo – ultimo atto’, la storia di un film maledetto

Solo un anno fa Russell Crowe indossava i panni di padre Amorth ne 'L’Esorcista del Papa', stavolta torna a vestire l'abito talare per combattere un altro genere di male: quello della difficoltà di perdonare se stessi


Di film maledetti la storia del cinema ne conta decine: tra incidenti sul set, attori incolpati di omicidio colposo e altri rimasti uccisi durante e dopo le riprese. Se ne parla poco, si cerca di dimenticare e di reprimere quell’oscurità che aleggia intorno a uno specifico titolo. Eppure c’è qualcuno che non riesce proprio a ignorare l’ambiguità di alcuni fatti. Stiamo parlando di Joshua John Miller, figlio dell’attore Jason Miller, interprete dell’iconico Padre Damien Karras ne L’esorcista di Bill Friedkin – per il quale fu nominato agli Oscar – con una parte anche nell’Esorcista III di Bill Peter Blatty. Così Joshua, che fin dall’infanzia non ha fatto altro che sentire parlare di quegli strani aneddoti che ruotavano intorno all’iconico film del 1973 scolpito nella mente degli appassionati, ha scelto di ispirarsi alla trama metacinematografica che si consumava parallelamente alle riprese del film maledetto per il suo L’esorcismo -Ultimo atto con Russell Crowe dal 30 maggio al cinema distribuito da Eagles Pictures.

Lo sentiva dire da suo padre quello che accadeva sul set: a cominciare dall’incendio che distrusse completamente gli interni della casa in cui era ambientato il film, ai dodici lutti della troupe coinvolta nella produzione, passando poi agli infortuni tra cui le lesioni alla schiena sia di Linda Blair che di Ellen Burstyn, che interpretavano rispettivamente Regan, la ragazzina posseduta dal demonio, e sua madre. Insomma, L’esorcista venne incolpato di tutto, al punto tale iniziò a girare la voce che chiunque guardasse la pellicola ne sarebbe stato poi posseduto ma, nonostante tutto, nulla ne impedì il successo.

Da attore esorcista in figlio regista

Erede del mistero di quella discussa pellicola in cui suo padre interpretava uno dei ruoli principali, Miller ha così scelto di dare origine al horror, direttamente ancorato alla scia dei racconti del padre, svelando anche qualche segreto sul genere. L’esorcista ultimo atto, non è quindi il sequel del noto film degli anni ’70 e nemmeno di quello del 2023 (L’esorcismo del papa) in cui Russell Crowe indossava l’abito talare del realmente esistito padre Amorth, si tratta invece di uno storytelling distante da quelli conosciuti ma con tutte le vibrazioni estetiche dell’universo stilistico – spesso stereotipato – del genere horror anni ’90 con l’impostazione del thriller psicologico contemporaneo “È un dramma psicologico che ha la forma di un film horror”, si ripete spesso nel film.

Reduce da una recente riabilitazione dopo anni di alcolismo, con un rapporto problematico con la figlia Lee (Ryan Simpkins) che lo ripudia per non essere stato accanto alla moglie malata di tumore, Anthony Miller (Russell Crowe), viene scritturato in un horror (dopo la sospetta morte del primo attore) per interpretare il prete. Si tratta di un film di possessioni che fa esplicito riferimento ai cult del genere, soprattutto a quello di Friedkin. Con estrema difficoltà l’uomo riesce a tirare fuori il meglio di sé sul set e l’immedesimazione tarda ad arrivare portando Miller a una profonda crisi causata dal senso di colpa, dai continui attacchi di un regista mortificante e altre sinistre sensazioni. Spogliato di tutti i ruoli e di ogni genere di identità a partire da quello di attore sul baratro, passando per quello di marito indegno, a quello di padre rinnegato con la figlia che lo chiama per nome e non papà, Miller diventa “carne” pregiata per la possessione demoniaca che si nutre di anime perse che sperano di essere salvate. Quello che sembra il tentativo di un uomo di riprendersi la propria vita, diventa così terreno fertile per chi cerca disperatamente il perdono, non da parte della religione, ma da se stesso. Ed è qui che iniziano a manifestarsi i sintomi demoniaci, sempre più frequenti, di Miller. Il passato più lontano in cui veniva molestato da un prete, e quello più recente dell’abbandono degli affetti, si intrecciano in flashback confusi e strazianti fornendo il via libera alle tentazioni del demonio che si impossessa della sua anima. Non c’è sangue e nessun organo si riversa per terra, l’orrore del male qui si rivela aprendo le emozioni di Tony, costringendolo a consumarsi con i ricordi e traumi di un uomo che ha saputo essere anche un mostro.

Il vero orrore sta nell’incapacità di perdonarsi

L’horror, per il Miller regista, è dunque accostabile al peso insostenibile dell’oppressione interiore – annegata per anni con l’alcol – e di chi cerca disperatamente la propria redenzione perdonando e perdonandosi al fine di riconciliarsi con la propria identità. Un percorso, quello scritto da Joshua John Miller per il suo protagonista, che segue una traiettoria narrativa giusta e convincente senza però fornire una robusta struttura al racconto che si riduce in rarissimi jumpscare e colpi di scena ridotti all’essenziale al fine di privilegiare la sostanza di un innesto psico-narrativo valido ma inefficace a sostenere l’intera durata del film. Tra la confusione dei raccordi spaziali e temporali, si inizia a bramare il climax e l’esorcismo finale, e poi, quando arriva – davanti agli occhi sconvolti di tutta la troupe – si esaurisce con una spiazzante semplicità da risultare inappagante, soprattutto per lo spettatore amante del genere che non verrà mai ricompensato per l’attesa. Porte che si aprono da sole se ne contano un paio, strani scricchiolii e momenti di sonnambulismo in cui si evoca il male in latino ce ne sono pochi e la tensione è quasi assente. Per Miller il vero horror è un altro? Probabilmente sì, ed è quello dell’ardua strada della riconciliazione con se stessi, dell’incapacità di perdonarsi per il male inflitto e delle difficoltà nel reprimere un passato in cui l’orrore lo si è vissuto e allo stesso tempo lo si ha fatto vivere.

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30 Maggio 2024

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