VENEZIA – Un uomo, l’attore Lee Kang-Sheng, cammina avanti e indietro per uno spazio limitatissimo, passando davanti a una pentola elettrica che cucina riso, per 20 minuti. Questo è il cortometraggio che chiude Venezia 69, Jingang Jing (Diamond Sutra) di Tsai Ming-Liang, nella sezione Orizzonti. Il regista taiwanese, di origini malesi, ne parla alla stampa con grande simpatia.
“E’ un progetto che, se vivo abbastanza, potrebbe avere un seguito entro 5 o 10 anni. Sono sempre stato considerato un regista libero ma non lo sono poi così tanto. Sono vincolato alla lunghezza, che i produttori vogliono attorno ai 90, 100 minuti, e ai gusti del pubblico, che vuole narrazione. Ma fare cinema per me non è narrazione, è esperienza sensoriale. Per questo i miei film sono così semplici. Spero con essi di poter apportare cambiamenti, anche nella percezione del pubblico di cosa è il cinema. Questo corto nasce da tre esperienze: uno spettacolo sperimentale che ho allestito l’anno scorso, l’esperienza di uno spot pubblicitario e la richiesta di partecipare a una mostra di architettura. Una copia gemellare di questo corto si trova al Palazzo delle Prigioni di Pazza San Marco, sempre per la Biennale. Si chiama Sleepwalk. E’ la versione per l’architettura. Questa è per il cinema. Naturalmente mi ispiro anche ai testi buddisti, e in particolare alla storia del secondo buddista che viaggiò per miglia e miglia in Occidente per trovare l’essenza della sua religione. E’ il soggetto della lunga marcia, spirito d’avventura e sentimento religioso”.
E la pentola? “Rimanda all’idea di cinema sensoriale. Mentre giravo, sentivo l’odore del riso che bolliva. E il suo rumore, l’ho scoperto girando. Magari per anni si mangia il riso cotto dalla mamma e non si sa che rumore faccia quando bolle. Lo sbuffare mi ha ricordato proprio mia madre. Mentre moriva eravamo al suo capezzale e aspettavamo l’ultimo soffio, l’energia vitale che usciva. Ritengo che non siano gli autori a dover essere educati conclude ma il pubblico. Ho chiesto ieri a Barbera di avviare una collaborazione con i musei, perché secondo me il cinema deve uscire dalla sala. Anche perché, se porto film di questo tipo in sala, il pubblico si addormenta. Prima me ne preoccupavo, ora non più: dico sempre tra me e me, dormi pure se sei stanco. Se il mio film ti fa dormire, vuol dire che è potente. Dormire al cinema è un’esperienza bellissima, soprattutto nei film di cappa e spada, dove mentre la gente sullo schermo ti ammazza, tu dormi tranquillo e sereno perché tanto, sei al sicuro”.
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