Palazzo Nardini, Via del Governo Vecchio – Roma. Un palazzo come fosse un corpo, un corpo mutevole la cui essenza è un intrinseco senso del femminismo, impregnato nelle pareti di quello spazio, architettonico quanto umano sin dagli anni ’70 – ’80, una storia di cui Alice Malingri – che qui approfondisce il progetto, con Marta Basso, Sara Cecconi, Carlotta Cosmai e Lilian Sassanelli è co-autrice: il documentario Le cose in frantumi luccicano nasce da un’idea originale di Emanuela Luchetti, con la produzione creativa di Alina Marazzi, e partecipa in selezione a Special Screening – Festa di Roma.
Il Palazzo è stato il cuore del Movimento di Liberazione della Donna, il cuore da cui far scaturire le conquiste e le rivendicazioni del movimento femminista italiano, sin dalla scelta dell’autogestione.
Alice, cosa significa ‘femminismo’ nel 2024?
Personalmente, ma rispondo anche a livello di collettivo per cui siamo tutte abbastanza sulla stessa linea, non ci identifichiamo con il termine ‘femminismo’ inteso quello degli anni ’70, un femminismo più antico dunque, ma ci riconosciamo nel transfemminismo, ovvero un femminismo di trasformazione. Per me vuol dire poter vivere – da donna o qualsiasi altro soggetto – la propria vita con le proprie libertà e i propri diritti riconosciuti, e che siano garantiti, senza paura, senza negazione, senza costrizione: non è tanto un aspetto politico della mia vita, quando più un modo di come vorrei vivere e come vorrei fosse il mondo.
Le cose in frantumi luccicano nasce con un intento politico? Si può parlare di Cinema Civile, c’è questo intento nel progetto?
Sicuramente sì, non tanto pensando a un cinema che debba educare, ma più a un cinema che parli a livello civile di questioni che hanno a che fare con la vita di tutti i giorni. Le cose in frantumi luccicano nasce principalmente dal bisogno di raccontare una storia del passato che non aveva ancora una cornice che la definisse, allo stesso tempo ci siamo rese conto che a noi non bastava solo raccontare il passato, ma che ci fosse un bisogno forte e unitario di confrontarci con l’oggi.
Nel tempo contemporaneo si palesano, si affermano, si includono anche identità femminili che in passato spesso restavano ‘mute’, in un cono d’ombra, parlo di omosessualità, pansessualità, transizione, ma anche di donne violate: come vi siete poste rispetto a queste sfumature non secondarie del femminile e quanto lo spirito della Casa delle Donne vi ha supportate in questa direzione?
Si parta dal presupposto che riconoscere l’altro in maniera basilare, in qualsiasi maniera si voglia definire, non è qualcosa che ci abbia creato fatica, anzi: per noi era impensabile fare un racconto del femminismo e del transfemminismo di oggi senza avere quella parte di lotte e di identità necessarie; ci siamo approcciate, soprattutto con il capitolo a cura di Carlotta Cosmai, che racconta una comunità di donne transessuali sudamericane, non tanto per la loro specificità ma volendo normalizzare e mostrare che, come nelle altre comunità di donne che abbiamo seguito, anche in quella la dimensione di Casa della Donna sussistesse, un concetto che ormai per noi è espanso, non è più un luogo fisico ma un cerchio di amiche che parlano insieme.
Inoltre, il materiale d’archivio è parte fondamentale del vostro film, che però avreste potuto anche decidere di raccontare in forma finzionale: perché la scelta del linguaggio documentario vi è parsa più consona al soggetto, e qual è il valore aggiunto dell’archivio?
Il cinema documentario è una scelta che viene dalle nostre pratiche come registe, tutte e cinque abbiamo esperienza di documentario, è quello l’ambito in cui lavoriamo e in cui vogliamo lavorare. Il valore aggiunto dell’archivio penso sia avere la matericità di un passato che aveva una potenza quasi totalizzante, soprattutto nelle immagini scelte, come la potenza delle manifestazioni che a me personalmente ha molto colpito, così come i visi e i corpi di queste donne, che sono di un passato non troppo lontano, ma la cui fisicità emerge da questi archivi parlando molto del presente; in più, c’è il fatto che abbiamo scelto di raccontare la storia di un palazzo – e di quello che è successo all’interno, che in questo momento è vuoto, abbandonato, per cui c’era bisogno di cercare le voci di questo luogo.
Il vostro collettivo è composto da cinque personalità femminili, oltre all’ideatrice e alla produttrice creativa Alina Marazzi: lei stessa, da autrice qual è, come ha esercitato il suo ruolo? Vi ha indicato delle linee guida di contenuto, binari su cui avete fatto poi correre la vostra storia, com’è funzionata la dinamica di creazione?
Il lavoro con Alina è stato di supervisione alla parte della regia, un aiuto fondamentale: ci ha seguite e, a livello generazionale, è stata come fosse un po’ uno step intermedio, oltre al fatto che lei aveva già lavorato su questi temi in passato, esperienze a metà tra noi e le signore del Governo Vecchio, che all’epoca avevano la nostra età; lei ci ha aiutate a far emergere i nostri temi, singolarmente ma anche coordinandoci come gruppo, e noi abbiamo fatto per la prima volta esperienza di lavorare con cinque teste pensanti e con delle idee registiche, stilistiche anche diverse, che allo stesso tempo però ci hanno dato tanta forza perché siamo riuscite, pur discutendo e faticando molto, in maniera molto unita a trovare un punto di vista che unisse tutti i fili.
Necessariamente, ciascuna di voi avrà portato sul tavolo le proprie competenze e il proprio punto di vista: su cosa siete ‘sorelle’ di cinema e di sentimento sociale, e su cosa divergete ma qui siete state disposte a scendere a compromesso?
Siamo prima di tutto delle amiche, soprattutto Marta, Sara, Carlotta e io abbiamo avuto percorsi di scuola molto simili, Lilian poi è arrivata sul progetto, ma di base c’è una simpatia e un volersi bene che ci ha unite moltissimo e ci continua a unire; abbiamo cominciato a scrivere questo film parlando anche tantissimo, sperimentando un po’ la dinamica dell’assemblea, e facendo emergere i nostri temi, guardando i temi del Palazzo: ciascuna aveva qualcosa che le risuonava di più addosso, come per esempio io avevo già fatto un film sull’aborto e mi interessava il discorso sulla maternità e sul corpo; per cui, tanti temi erano già dentro di noi e quindi ci siamo date lo spazio per farli emergere, discutendo e poi capendo insieme; le divergenze sono state non tanto sulla pratica registica ma più su come viviamo il femminismo, perché essendo qualcosa di molto personale c’è chi tra noi è più militante, più politica, più di lotta, chi più intellettuale, chi lo vive come un sentimento, una pratica senza bisogno di binari, qualcosa di molto fertile per il confronto.
Dopo questa primissima esperienza collettiva, c’è prospettiva per un prosieguo, è una fase di transizione, è stato un unicum?
Ci stiamo pensando. Non abbiamo ancora niente di troppo preciso, c’è un progetto cominciato prima di questo film tra Marta, Sara, Carlotta e me: l’esperienza di lavorare in collettivo è faticosa, molto, ma anche molto stimolante e mi piacerebbe lavorare su questi temi, in questa modalità.
Il film è prodotto da Sandro Bartolozzi: una produzione Clipper Media, con Fondazione Renato Armellini, in collaborazione con Rai Cinema, con il sostegno del MiC e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea”.
Intervista a Carlo Verdone e Stefania Rocca, sul tappeto rosso di chiusura di RomaFF19
Nella nuova stagione Verdone si prepara ad essere direttore artistico del Festival di Sanremo
L'attore hollywoodiano ha ricevuto il Premio alla Carriera della Festa del Cinema di Roma 2024, prima dell'anteprima di Modì - Tre giorni sulle ali della follia, suo nuovo film da regista
Sul red carpet della Festa del Cinema di Roma è arrivato Johnny Depp