BERLINO – Una legge arcaica, come il Kanun, che da secoli regola la vita tra le montagne dell’Albania in una società patriarcale dove alle donne è negato tutto, e una riflessione tutta contemporanea sull’identità sessuale. L’opera prima di Laura Bispuri, a Berlino in competizione, ha colpito nel segno. Anche per l’intensa presenza di Alba Rohrwacher, impegnata in una performance notevolissima. Il film, applaudito dai giornalisti, è ispirato al romanzo di Elvira Dones, Vergine giurata (Feltrinelli, 2007) e racconta il percorso seguito da Mark per sfuggire al destino che ha scelto un giorno, durante la sua adolescenza, quando per conquistare la libertà di muoversi come un maschio, cavalcare e imbracciare un fucile, badare al gregge e fumare, ha giurato di rinunciare per sempre all’amore, di restare vergine e costringere il suo giovane corpo a una trasformazione che l’ha allontanata dagli altri. Con il seno stretto dentro una fascia e i capelli corvini tagliati corti, Hana è diventata Mark. Ma oggi, trentenne, decide di partire dalle sue montagne isolate dal mondo, per raggiungere in Italia la sorella adottiva Lila, a cui è legatissima, e che vive con la figlia Jonida, ragazza ribelle e inquieta.
Prodotto da Vivo Film con Colorado e Rai Cinema, in coproduzione con Svizzera, Germania, Albania e Kosovo, il film sarà distribuito da Istituto Luce Cinecittà. Un’altra prova estrema per Alba Rohrwacher, che recita nel dialetto albanese delle montagne – ed è convincente anche per i giornalisti di Tirana – e restituisce benissimo il sentimento di implosione di Mark /Hana. Per l’attrice, a cui oggi ‘Le Monde’ dedica un grandissimo spazio in occasione dell’uscita in Francia de Le meraviglie, è la terza prova internazionale, dopo il film della sorella Alice, che era a Cannes, e Hungry Hearts di Saverio Costanzo, che a Venezia le ha regalato la Coppa Volpi. E gli sguardi tra lei e Laura tradiscono una complicità particolare tra regista e attrice. “Siamo state quasi in simbiosi”, confida Bispuri. E Rohrwacher le fa eco: “Senza la fiducia assoluta che hai riposto in me non so se avrei avuto il coraggio di affrontare questa esperienza”.
Laura Bispuri, come avete lavorato alla trasformazione fisica che ha portato prima Hana a diventare Mark e in seguito a riappropriarsi gradualmente della sua identità femminile?
Ci ha guidate il filo rosso del corpo. Bisognava mostrare una trasformazione fisica evidente senza farne una caricatura, rendere delicato questo passaggio. È un corpo congelato che passo passo, attraverso degli incontri che fa, arriva a uno scongelamento.
Ha sempre pensato ad Alba per il ruolo?
Sempre. Nei tre lunghi anni di preparazione del film non ci siamo mai perse. Così, quando siamo arrivate sul set, avevamo un background corposo di conoscenza del personaggio. Anche la ricerca dei gesti è stata graduale. Le chiedevo di esagerare, di essere volgare, per poi smorzare. Mark ha capelli e occhi scuri, che esprimono bene il suo indurimento. Per Alba è diventato naturale essere Mark, non se ne separava neanche quando andava a dormire durante le quattro settimane di riprese.
Avete incontrato delle vere vergini giurate?
Sì, di età diverse. Il primo incontro è stato emozionante e difficile. Non era facile prendere contatto con loro. Ho conosciuto una vergine di 35 anni, ci siamo incontrate in un alberghetto in montagna. Una ragazza molto dura che quando le ho chiesto se non le mancasse l’amore, mi ha risposto: “Per me l’amore è la morte”. Restano fedeli a questa scelta, sono pochissime quelle che abbandonano. La parola data, nel Kanun, ha un senso molto forte. In seguito ho incontrato altre vergini, più anziane, sui 60 anni o più. Una di loro, Pal, appare anche nel film.
Che cosa le hanno comunicato queste persone?
Sono creature a metà. Ognuna di loro è diversa perché diversi sono i motivi che spingono a fare questa scelta. Ma tutte mi sono apparse consumate. Vivono in isolamento, sulla neve, in villaggi sperduti.
Cosa l’ha colpita del romanzo?
Vi ho trovato una storia che sentivo forte e originale, ma soprattutto in cui potevo mettere tanto di me e che aveva un legame con i miei lavori precedenti perché parla di un tipo diverso di femminilità. Nei miei corti racconto personaggi come incastrati in gabbie, di identità o corporee, che sento l’esigenza di liberare.
Ha tenuto conto di altri film sul tema dell’androgino, da Orlando di Sally Potter a Boys don’t cry?
Non amo guardare altri film quando sto lavorando e tendo a non farlo. Non voglio sembrare presuntuosa, ma avevo chiaro in mente lo stile che cercavo. Uno stile legato alla realtà ma con momenti lirici. Il film è una grande soggettiva di Mark, è tutto costruito con piani sequenza, tranne la scena in piscina quando si vedono tanti corpi umani, nella loro realtà e diversità, lì il mio sguardo si sovrappone a quello di Mark.
Perché la metafora del nuoto sincronizzato, tra l’altro presente anche in un altro film italiano qui al festival, Cloro?
Come Mark è stato in apnea per tanti anni sulle montagne dell’Albania, anche la giovanissima Jonida lo è. Il nuoto sincronizzato mi sembrava una sintesi visiva di una femminilità che ha a che fare con un’immagine di perfezione e di bellezza che è una delle gabbie del nostro tempo. La questione che riguarda la libertà delle donne esiste in Albania come qui. Noi non siamo migliori o più liberi. Nel nuoto sincronizzato le bambine sono truccate pesantemente e devono sorridere nonostante la fatica. La fatica del femminile non si vede perché è sott’acqua.
Isabel Coixet, che ha aperto il concorso di Berlino, ha parlato delle difficoltà per le donne che fanno cinema. Ha detto che vorrebbe avere gli stessi ostacoli che hanno gli uomini e non di più.
Le difficoltà non riguardano solo il cinema, ma tutta la società. Le statistiche sono impressionanti. Anche se nella mia esperienza personale gli ostacoli che ho avuto sono stati simili a quelli incontrati dai colleghi uomini per un progetto di questo tipo. Ma è vero che le registe donne sono molte di meno. È un dato di fatto.
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