Lars Von Trier, sesso, sensi di colpa e marketing

La prima parte di Nymphomaniac (145') a Berlino nella versione integrale e il regista indossa una t-shirt polemica con il Festival di Cannes


BERLINO – Al cospetto dei fotografi Lars Von Trier si presenta ammiccante, con una t-shirt nera su cui campeggia la scritta “persona non grata” sotto al simbolo della Palma d’oro. Chiaro riferimento alla gaffe fatta al festival francese quando nel 2011, in occasione della premiere di Melancholia venne tacciato di filonazismo per una dichiarazione malaccorta. Forse per evitare di parlare a sproposito a Berlino evita la conferenza stampa. Dove neanche Charlotte Gainsbourg si è fatta vedere (impegni di famiglia la trattengono a Parigi), mentre Shia LaBeouf, cappellino da baseball calato sugli occhi, alla prima domanda indiscreta (ma nemmeno poi tanto) si alza e se ne va. Mentre la sera, sul red carpet, ha indossato sul viso un sacchetto di carta con su scritto “non sono più famoso”. 

Insomma Nymphomaniac, presentato qui fuori concorso nella versione integrale, deve parlare da solo. Alla Berlinale, di questa edizione uncut, si è visto il Volume 1 per una durata di appena 145’, mentre il volume 2 (180’) resta da svelare (e la produttrice Louise Vesth ironizza sulla possibilità che sia presentato a Cannes). Ma chi ha potuto fare il confronto tra le due edizioni, almeno di questa prima parte, assicura che le differenze non sono poi così abissali, al massimo qualche primo piano di genitali in più. “Un contenuto sessuale più esplicito che consente una comprensione più profonda”, come dice la produttrice. Però è bastato a creare problemi a RaiNews24 per un trailer dove appariva una fellatio trasmesso in fascia protetta.

Nymphomaniac è ormai il segreto di Pulcinella eppure continua a far parlare di sé, a scandalizzare. Il film è uscito in Danimarca a Natale e subito dopo in Francia (mentre da noi la Good Films lo distribuirà ad aprile). Anche chi non l’ha visto sa che è la storia della confessione di una donna di circa cinquant’anni, Joe, che il buon samaritano Seligman (Stellan Skarsgard) trova pestata a sangue in un vicolo isolato durante un’abbondante nevicata. La porta a casa, la rifocilla e comincia ad ascoltare il racconto della sua vita o meglio delle sue imprese sessuali. La donna si considera un essere spregevole ed è pervasa da sensi di colpa (“mea vulva, mea maxima vulva” è uno degli slogan del film), Seligman (il cui nome, di origine ebraica, vuol dire “colui che è felice”) propende invece per una visione naturalistica della sua inclinazione al sesso seriale che nasce nell’infanzia e si radica nell’adolescenza, dai giochi erotici chiusa in bagno con l’amichetta alla repentina perdita della verginità in cinque mosse, collegata alla sequenza di Fibonacci (!). Le metafore abbondano e ci accompagnano nel viaggio: dalla pesca con la lenza alla ninfa come stadio di sviluppo dell’insetto fino al paragone con la polifonia bachiana con tanto di schermo tripartito dove compaiono i tre amanti diversi che compongono l’armonia attraverso la dissonanza. Largo spazio viene dato al tema dell’amore, che Joe rifiuta e che considera solo una somma di lussuria e gelosia, ma in cui cade come una pera cotta quando rincontra Jerôme, il brusco ragazzo della sua prima volta diventato un uomo d’affari (Shia LaBeouf).

In tutta questa prima parte una malconcia Charlotte Gainsbourg si limita a parlare, mentre vediamo in azione la giovane Joe interpretata dall’esordiente assoluta Stacy Martin che con la sua bellezza acerba dà al personaggio un’aria di vittima sacrificale molto intonata alla concezione del femminile a cui il regista danese ci ha abituato da Le onde del destino in avanti. Ma al di là della carrellata di orgasmi e penetrazioni, sesso orale e erezioni in primo piano, il tutto ad uso del marketing, Nymphomaniac ci regala anche un paio di momenti di grande cinema. Il capitolo dedicato all’agonia dell’amato padre di Joe (Christian Slater), che muore nel delirio tra allucinazioni e crisi violente, mentre la figlia lo assiste (e del resto il rapporto padre-figlia sembra rispecchiarsi anche nel dialogo con il buon Seligman). E il pezzo di bravura di Uma Thurman, moglie abbandonata che si presenta a casa di Joe con i tre figli e inscena una buffa pantomima tra disperazione e ridicolo di fronte al marito adultero: “Sette pagine di sceneggiatura recitate tutte d’un fiato con Lars che non mi faceva più smettere”, come racconta l’attrice. E almeno lei sembra soddisfatta.  

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09 Febbraio 2014

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L'Orso d'oro e l’Orso d’argento per l’interpretazione maschile vanno al fosco noir Black coal, thin ice di Diao Yinan insieme al premio per il miglior contributo tecnico alla fotografia di Tui na di Lou Ye. Un trionfo cinese a conferma della forte presenza al mercato di questa cinematografia. Importante anche l’affermazione del cinema indipendente Usa che ha visto andare il Grand Jury Prize a Wes Anderson per il godibilissimo The Grand Budapest Hotel. Il talentuoso regista ha inviato un messaggio nel suo stile: “Qualche anno fa a Venezia ho ricevuto il leoncino, a Cannes mi hanno dato la Palme de chocolat, che tengo ancora incartata nel cellophane, finalmente un premio a grandezza naturale, sono veramente contento”. Delude il premio per la regia a Richard Linklater che avrebbe meritato di più


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