La strada di Levi


E’ un road movie letterario sull’Europa del già e del non ancora, imprevedibile come lo sono i viaggi, fatti di occasioni e d’incontri, di riflessioni e digressioni, La strada di Levi. Così dicono il regista (Davide Ferrario) e lo scrittore (Marco Belpoliti) che hanno percorso 6.000 km con La tregua come breviario attraverso dieci frontiere: Polonia e Ucraina, Bielorussia e Moldavia, Romania e Ungheria, Slovacchia, Austria e Germania verso le luci di Torino. “Per Levi, che scrisse questo libro nel ’63, la parola ‘tregua’ voleva dire diverse cose – spiega l’autore di Dopo mezzanotte, già al lavoro su un progetto ambientato in carcere – era la fase tra la fine della seconda guerra mondiale e la guerra fredda, un momento di indefinizione tra Est e Ovest; ma era anche la sua tregua personale, la liberazione, perché a Torino sarebbe ricominciato tutte le notti l’incubo di svegliarsi nel lager”. Esistono remissioni, tregue – scriveva – come nella vita del campo l’inquieto riposo notturno. Ma sono intervalli brevi e presto interrotti dal comando dell’alba.

 

Ferrario e Belpoliti hanno ritrovato nell’oggi, tra la caduta del Muro e l’attentato alle Torri Gemelle, quella sospensione, in cui era come se fosse finita la storia. Ecco perché il film si apre con le immagini di Ground Zero e con l’eco della guerra al terrorismo, “una guerra che si combatte continuando ad andare al cinema e affollando i supermercati”. La strada di Levi, che Ferrario ha prodotto con il ministero (è il primo documentario ammesso ai benefici della nuova legge) e Rai Cinema, è stato accolto alla Festa con calore dopo i successi al festival di Toronto, mentre presto partirà per Londra: un buon auspicio per l’uscita in sala con 01 Distribution prevista per il 19 gennaio. “Ma non vogliamo uscire nel Giorno della Memoria – dice ancora il cineasta – perché non vorrei che fosse messo nella categoria dei film benintenzionati sul lager”. Certo, l’Olocausto è un’eco stridula sullo sfondo di questa storia che ha anche tanti momenti leggeri e ironici (come la surreale scena del kolkoz “rubata” alla vita vissuta con l’intervento del responsabile distrettuale per l’ideologia). Del resto lo stesso Levi, all’indomani del suo suicidio nell’aprile dell’87, fu definito da Massimo Mila sulle colonne della Stampa “un umorista” e le sue pagine, lette fuori campo da Umberto Orsini, sono dense e dolorose ma anche cariche di umanità e ironia, e hanno sempre qualche risvolto inatteso. Belpoliti, che ha curato le “Opere” di Levi per Einaudi, racconta: “La Tregua, come ci ha fatto notare Mario Rigoni Stern, non è certo privo di allegria, ma è un’allegria che si spegne in cupezza all’arrivo in Germania, quando lo scrittore si domanda: sapevano loro di Auschwitz, della strage silenziosa e quotidiana? E aggiunge: sentivo il numero tatuato sul braccio stridere come una piaga”. Così la scelta di mostrare, nella tappa tedesca del viaggio odierno, un raduno dei neonazisti “non perché tutti i tedeschi lo siano ma perché il passato non passa, la storia non è lineare come ci piace credere, non ci sono pagine che si girano per sempre”, dice ancora Ferrario. Ed ecco che l’Europa della globalizzazione è zavorrata dal sopravvivere di totalitarismi e fanatismi di ogni tipo. “Siamo tutti nazisti riflette Belpoliti – e siamo tutti comunisti. Non possiamo buttare la polvere sotto il tappeto. Il razzismo, lo sfruttamento, il maschilismo sono tutte cose che appartengono all’animale uomo a cui Levi guardava spesso con un determinismo alla Konrad Lorenz”. Senza mai fermare il viaggio, i due autori incontrano la Bielorussia di Lukashenko e la Romania delle fabrichette italiane, la Polonia dove il mito dell’Uomo di marmo si è sgretolato e la Cernobyl dove “la ruggine e il caos” hanno ripreso il sopravvento sulla vita (sono parole di Levi: profetiche), l’Ucraina che fa del cantante Igor Bilozir, ucciso da nazionalisti russofoni in un bar, un eroe della patria… Un’Europa incompiuta, in transizione, inafferabile.

autore
19 Ottobre 2006

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