La storia di Souleymane, dalla Guinea a Parigi in cerca di asilo

'La storia di Souleymane' del francese Boris Lojkine, in sala dal 10 ottobre con Academy Two, è un thriller con al centro la vicenda di un giovane rider africano


Vincitore del Premio della giuria di Un Certain Regard, del Premio al miglior attore (Abou Sangare) e del Premio Fipresci allo scorso Festival di Cannes, La storia di Souleymane di Boris Lojkine, in sala dal 10 ottobre con Academy Two, è un serrato thriller metropolitano con al centro la figura di un giovane rider arrivato a Parigi dalla Guinea. Mentre pedala per le strade intasate dal traffico, di giorno e di notte, per consegnare cibo a domicilio, Souleymane ripassa la versione che, tra due giorni, dovrà raccontare ai funzionari dell’ufficio rifugiati per avere l’asilo politico. E’ una storia altrui che deve diventare la “sua” storia, ma intanto gli ostacoli e le minacce si moltiplicano sul suo percorso, incidenti, fregature, richieste insistenti di soldi che non ha, ritardi che diventano drammatici perché l’ultimo autobus è l’unico modo per raggiungere il centro di accoglienza dove passa la notte. E ancora telefonate con la madre, malata di mente, o con la ragazza di cui è innamorato ma che forse sposerà un altro. Sono 48 ore nella vita di un migrante raccontate non con i toni del dramma sociale ma con quelli del cinema adrenalinico. Ed è curioso che un altro film recente – Anywhere Anytime di Milad Tangshir che era alla Settimana della critica di Venezia – abbia al centro la figura di un rider, assurta a icona contemporanea dello sfruttamento senza tregua.

“Nel contesto politico attuale diventa più importante e urgente parlare di migrazione, una cosa che in Francia come in Italia da alcuni anni ha preso un posto enorme nei discorsi politici – afferma il regista Boris Lojkine, che è a Roma per l’anteprima di stasera al cinema Greenwich – Oggi i migranti vengono visti troppo come figurine, persone disumanizzate, io volevo esattamente fare il contrario, non volevo dare nessun messaggio, ma far stare attaccato lo spettatore a Souleymane e alla sua bicicletta. E questo per far sì che si guardino questi migranti in modo diverso. Nessuno ha mai raccontato davvero il loro punto di vista è invece importante umanizzare queste persone, stare vicino fisicamente a Souleymane”.

Già autore, con il precedente Hope, di una storia dove i personaggi arrivano in Europa da altri mondi, in quel caso Léonard e Hope, un uomo del Camerun e una donna della Nigeria, il documentarista Lojkine ha sempre cercato le sue storie in paesi lontani, dal Marocco al Vietnam alla Repubblica Centrafricana, mentre stavolta cerca l’altrove dalla prospettiva di un ragazzo africano, un po’ come faceva Matteo Garrone in Io Capitano. “Per raccontare certe cose bisogna essere onesti al 100%, cercare di immedesimarsi, abbandonare la prospettiva di uomo bianco, ci vuole umiltà e coerenza”, afferma.

Come ha costruito la struttura narrativa del film, una corsa incessante per superare gli ostacoli che si frappongono tra il protagonista e la possibilità di vivere una vita decente? C’è un’estetica dell’ansia che pervade questa storia.

Fin dall’inizio avevo in mente un uomo che corre veloce in bicicletta nella città e quindi un film altrettanto veloce. Era chiaro che tutto dovesse svolgersi in un tempo ridotto, 48 ore, e che avrebbe avuto una struttura da thriller con questo conto alla rovescia.

Qual è stata la principale difficoltà nella scrittura che ha curato con Aline Dalbis?

Ci sono due linee narrative nel film che andavano unite. Le consegne e l’asilo. L’asilo è l’obiettivo principale del personaggio, la sola cosa che possa davvero cambiare la sua vita, mentre l’esperienza del rider porta in sé l’elemento dinamico. Avrei potuto rifare Ladri di biciclette, raccontando i tanti furti di biciclette subiti dai fattorini, ma non sarebbe stato così drammatico. La sola cosa totalmente drammatica è ottenere il permesso di soggiorno. La richiesta di asilo dà uno scopo al personaggio, anche se produce poca azione, la bicicletta, al contrario, produce molta azione: la velocità, il rapporto con i clienti, i ristoranti, il titolare dell’account che lo vuole imbrogliare.

Avete girato nel traffico caotico di Parigi senza fermarlo.

Per fermare il traffico a Parigi ci vogliono almeno due milioni di dollari e poi non sarebbe lo stesso. Per avere il sentimento di una città caotica e rumorosa non devi fermare nulla: il traffico, le persone che passano, la metropolitana, i treni dei pendolari RER. Sistematicamente ho messo tutte le scene di dialogo nei luoghi peggiori, quelli più rumorosi, come gli incroci, abbiamo discusso molto con il tecnico del suono. Spesso nel cinema i dialoghi avvengono in luoghi riparati e tranquilli, ma qui no, ed è tutto in presa diretta. C’è stato un grande lavoro di montaggio del suono. Per fortuna la storia si svolge d’inverno e quindi portano dei berretti di lana dove abbiamo nascosto i microfoni. Usare la giraffa sarebbe stato impossibile perché riprenderebbe tutto il rumore ambientale.

Souleymane è ossessionato dal dormitorio dove ogni notte deve faticosamente tornare con un lungo viaggio e che ogni mattina deve prenotare di nuovo.

Si tratta di un grosso centro di accoglienza d’emergenza che si trova a Nord di Parigi e che si chiama La Boulangerie perché era la vecchia panetteria dell’esercito. Molti migranti hanno abitato qui all’inizio del loro soggiorno a Parigi. È gestito dal numero 115, un servizio del Comune di Parigi, bisogna chiamare questo centralino molto presto, entro le 7 e mezza del mattino, per prenotare. Oggi ci dormono circa 400 persone in enormi stanzoni, ma è in dismissione, perché le nuove case di accoglienza sono per 4 o 5 persone. Così alla fine il film racconta un pezzo della storia dell’accoglienza a Parigi, anche se non abbiamo girato lì ma in un’altra location.

Come ha trovato lo straordinario protagonista, premiato a Cannes, Abou Sangare?

Abbiamo fatto un casting allargato. Cercavamo un rider della Guinea e ne abbiamo incontrati a decine. Alla fine siamo usciti da Parigi e ad Amiens, tramite un’associazione di giovani guineani, abbiamo fatto altri provini. Sangare mi è sembrato subito interessante e ciò che mi ha convinto in lui è stato un momento di silenzio molto potente. Non faceva il rider ma il meccanico quindi innanzitutto ha dovuto prendere pratica con le consegne, quindi ci sono state le prove. Per gli attori è un modo per migliorare, per me è un modo per adattare la sceneggiatura al loro modo di parlare e di muoversi. E’ così che la mia sceneggiatura diventa la loro sceneggiatura.

La scelta della Guinea Konakrì è dettata dalle circostanze politiche che coinvolgono i cittadini di questo paese.

Nelle consegne a Parigi ci sono due comunità dominanti: gli ivoriani e i guineani. La grande differenza è che quasi tutti i guineani fanno domanda di asilo, mentre gli ivoriani non la fanno. La Guinea è un paese con una storia politica complessa. Dieci anni fa c’è stata una grande repressione politica, centinaia di persone sono state massacrate. In quel momento molti perseguitati politici sono arrivati in Francia e hanno ottenuto l’asilo. Ma oggi se un guineano racconta quelle stesse storie ha zero chance di ottenere l’asilo perché sono storie ripetute all’infinito. Ho avuto la possibilità di assistere ad alcuni colloqui dell’OFPRA (l’Office français de protection des réfugiés et apatrides, ndr) e tutti i guineani raccontavano di persecuzioni politiche esattamente con le stesse identiche parole.

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27 Settembre 2024

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