VENEZIA. “Mio nonno era un immigrato entrato negli Stati Uniti senza documenti. Oggi, nell’America di Donald Trump, l’avrebbero arrestato, sbattuto in prigione e poi rispedito a casa”. Senza giri di parole Abel Ferrara l’autore americano del documentario Piazza Vittorio (Fuori Concorso) fa capire da che parte sta il suo cuore a proposito del grande tema oggi sempre più all’ordine del giorno in termini di sola emergenza.
Il suo film è dedicato a un luogo multietnico del quartiere Esquilino a Roma dove vive da tre anni. E’ il racconto di un microcosmo dove, come mostra il documentario, convivono, non senza difficoltà e problemi, tradizioni, culture e religioni diverse insieme ai cittadini romani. Insomma un luogo simbolico dell’Italia che cambia e si confronta con la sfida dell’integrazione dei ‘nuovi italiani’. Emblematica la scena in cui in un bar di piazza Vittorio fianco a fianco c’è l’anziana proprietaria che ci lavora dalla metà degli anni ’50 e il cameriere africano che da parecchi anni l’aiuta dopo avergli tramandato il mestiere e chissà forse il locale.
A parlare nel documentario sono le tante voci e anime del quartiere sollecitate dallo stesso Ferrara: anziani italiani, cinesi, africani, latinoamericani, indiani, egiziani, moldavi. Ascoltiamo storie diversissime: dagli immigrati arrivati 15/20 anni fa e inseriti nel tessuto produttivo a quelli arrivati in Italia di recente e che vivono alla giornata, fino a quanti clandestini e clochard dormono per strada.
Parlano anche il regista Matteo Garrone, affascinato dalle facce di questa comunità antropologica, o l’attore americano Willem Dafoe. C’è spazio anche per la testimonianza ‘rassicurante’ di tre militanti di Casa Pound, presidio nel quartiere a difesa di una presunta ‘italianità minacciata’.
“La cosa fantastica è la varietà di questo quartiere, come le sfaccettature di un diamante. Anche negli USA gli abitanti non sono tutti uguali, sono differenti tra Stato e Stato – afferma il regista – Del resto io non vivo a Roma, ma a Piazza Vittorio, in una zona i cui confini sono il Colosseo, la stazione Termini e via Merulana. Questo piccolo mondo con il ristorante e il bar che frequento è la mia Roma”.
Ferrara racconta, in modo a tratti poetico o neorealista, questa varietà di culture nell’arco di una giornata senza avventurarsi in prese di posizione ideologiche, facendo però intuire che quella piazza come la vediamo nei vecchi filmati dell’Archivio Luce è radicalmente mutata e indietro non si può tornare perché viviamo nel presente viviamo.
“Oggi quando si parla di immigrati lo si fa presentandoli come problema – spiega – Ma gli africani per esempio sono a Roma da sempre, ora invece il fenomeno è visto solo in modo negativo. I profughi poi non sono semplici immigrati ma scappano dalle guerre”.
Ferrara intende il lavoro di documentarista come la scrittura di un diario dove annotare le persone che s’incontrano “Le riprese sono state realizzate nel giro di 5/6 giorni. Abel conosce bene il quartiere di cui ha cercato l’anima, come si trattasse di una persona. Abbiamo utilizzato – spiega il montatore Fabio Nunziata – lo stratagemma di avere spesso Abel in campo, la sua presenza comunque discreta è un tramite per lo spettatore. Inoltre ci sono alcune inquadrature di situazioni più scabrose che sono state ‘rubate’ con il cellulare. Il montaggio infine per Abel è la parte fondamentale del lavoro perché in questa fase di lavorazione cerca ancora il film”.
Ha visto la città cambiata con il nuovo sindaco, gli domanda in chiusura un giornalista. “Purtroppo non ho visto un cambiamento, ma è una città che esiste da tremila anni. Non è solo la questione del sindaco, il cambiamento dipende dal singolo. Ma come americano ho già i miei problemi politici di cui occuparmi”.
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