VENEZIA – “La mente trasforma le bugie in verità, e poi ci crede. La verità è una cosa importante oggi, e il film parla della verità: sono bellissimi i dialoghi della sceneggiatura (di Scott B. Smith)”, dice Giuseppe Capotondi del suo secondo lungometraggio, The Burnt Orange Heresy, con cui torna al Lido per la chiusura, dopo essere già stato alla Mostra con La doppia ora (in Concorso alla 66ma edizione e Coppa Volpi femminile).
“Quasi nulla è come crediamo … le maschere fanno male”, recita nel film l’artista Jerome Debney, interpretato da un delicatissimo Donald Sutherland, un maestro criptico e quotato, che inizialmente confonde il critico James Figueras (Claes Bang), indotto dal potente collezionista d’arte Cassidy, Mick Jagger, a sottrarre, a qualsiasi costo, un’opera d’arte all’anziano maestro.
Un’atmosfera raffinatissima e fascinosa, inquietante e seduttiva, giocata tra Milano e soprattutto le sponde del Lario, luogo che conferisce alla storia ulteriore velatura nera e di sospensione. “Il libro (di Charles Willeford) era scritto negli anni ’70 e ambientato a Palm Beach: ho cercato un’atmosfera hitchcockiana, e il Lago di Como dava un’atmosfera più sofisticata, ma in generale volevo ricreare il glamour del cinema d’oro degli anni ’50-’60, anche nei costumi (del premio Oscar Gabriella Pescucci), così nelle acconciature. Abbiamo cercato di fare un film elegante, sofisticato, non naturalistico, ma non lontano della realtà. Non vorrei però che lo stile coprisse il significato del film, per me molto forte”, dice Capotondi di questo racconto che mescola più di un genere perché “ogni genere manda un messaggio, che solo con il drammatico non avrei potuto fare: si manda sempre un messaggio con un film, anche se non espressamente cercato”, continua il regista de La doppia ora, che “riguardava l’impossibilità di accettare chi siano, per quello che siamo: in cui c’era il tema della verità, ma non forte come in questo film. Entrambi sono noir, thriller psicologici, ma differenti”, puntualizza ancora, affinché non ci sia una ricerca troppo insistente di punti continuità tra il primo e il secondo lungometraggio.
Nel gioco a tre tutto al maschile non manca la figura femminile, Berenice Hollis, l’attrice Elizabeth Debicki, un’algida fanciulla che in principio incontra il critico d’arte quasi per caso e viene spontaneamente portata dallo stesso alla villa sul Lago, incarnando un ruolo metaforico, di cui l’attrice dice aver apprezzato: “la sua intelligenza e sensibilità. Mi ha affascinato un personaggio così intuitivo, ha un ottimo istinto. Quando ci incontriamo con Figueras nel film s’arriva ad un momento di domanda e offerta, lei è vulnerabile, smette di fidarsi del suo istinto, vuole capire chi è. Aspetta che siano gli altri a proiettare su di lei. Quello che mi ha colpita quando ho letto la sceneggiatura è stata l’aura di purezza intorno a lei, che ritengo sia bellissima. C’è onestà. È una persona che appena incontri è sospesa ad un filo sottile, sta cercando l’amore, vuole disperatamente trovare intimità, solo cade nella mani di qualcuno le cui intuizioni sono discutibili. Straordinario è il collegamento con il personaggio di Sutherland, che si prende cura di lei in qualche modo”.
Un Donald Sutherland che in quanto Debney non è quello che la coppia s’attende possa essere, è un artista che li basisce portandoli in uno studio d’arte, il proprio, in cui tutte le tele sono bianche, immacolate, eppur parla della tonalità di blu che sta studiando per la tela sul cavalletto, ma questo non perché l’uomo sia un pazzo, ma perché l’attesa dell’essere è s-mascherata dall’evidenza dell’apparire. “È la miglior sceneggiatura che ho letto da venti anni ad oggi! Mi è piaciuta l’idea di qualcuno che comprende che quello che serve è lavorare per se stesso: può dipingere senza usare la pittura. Il mondo che è di fronte a lui è un mondo che prende sogni, luci, perché prima era come in una pianura buia. E’ un personaggio puro, che riconosce e comprende quello di Berenice e la ama profondamente. Un progetto straordinario, come lo è stato Giuseppe”, per l’attore ottantacinquenne.
Eppure, non c’è purezza se non c’è qualcosa di diabolico (e d’altronde lui, Mick Jagger, il diavolo lo ha addirittura cantato nel ‘68 in un suo brano iconico, Sympathy for the devil) e infatti pare essere proprio questo il profilo del personaggio che la rock star anima nel film con il suo collezionista d’arte: “Mi è piaciuto moltissimo il ruolo. Lui colleziona e commercia, ha una galleria: è un altro aspetto della critica, perché non è un mondo fatto solo di artisti. Tante volte il mercato è sostenuto dai mercanti, e perché no? Sicuramente è il ruolo minore del film, ma è il personaggio che inserisce quello di Figueras nelle sue azioni. Recitare è una performarce, come stare sul palco: c’è però impegnata una parte differente del corpo e del cervello, che non sono quelle che uso di solito dal vivo. Mi è piaciuto fare il film per la sceneggiatura interessante, sorprendente: abbiamo tutti trovato nel proprio personaggio qualcosa da descrivere, e il mio è affascinante”, ha spiegato il cantante britannico.
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