La guerra dei fiori rossi


Un asilo come metafora dell’omologazione e un bimbetto di quattro anni come eroe dell’individualismo contro il vangelo della collettività. La guerra dei fiori rossi, dal romanzo semi-autobiografico di Wang Shuo, apprezzato dal pubblico di Panorama, è diretto da Zhang Yuan, che vinse il Leone d’argento a Venezia con Diciassette anni. Anche quella era una coproduzione italiana con Marco Müller, stavolta in associazione con Rai Cinema e Istituto Luce. E sarà il Luce a distribuire il film in sala il 12 gennaio, mentre a marzo uscirà in Cina, anche se non è stato facilissimo ottenere il visto di censura perché, racconta il regista, il sistema educativo non è cambiato più di tanto rispetto ai tempi descritti dal film, che sono quelli della rivoluzione culturale.

 

Ha appena 4 anni, l’indomabile Qiang, faccia da schiaffi e grande comunicativa, quando suo padre lo lascia in un collegio gestito con disciplina militare dalle maestrine. Vestirsi da soli, andare al bagno a orari prestabiliti e tutti insieme, sottoporsi alle regole umilianti dell’igiene corporale, mangiare in silenzio… tutto è scandito da rituali cui è indispensabile conformarsi. I più bravi vengono  premiati con un fiorellino di carta rossa. Ma Qiang non ci riesce, non lo convincono né le minacce né le lusinghe e neppure la peggiore delle punizioni: il divieto di parlare con gli altri bambini. Continua a fare la pipì a letto, a mettere il naso dove non deve, a sobillare i compagni, a giocare al dottore con la sua piccola amica (interpretata dalla figlia del regista, una bimba di 8 anni). “Mi interessava descrivere un periodo dell’infanzia in cui l’animo è ancora integro”, ha spiegato il regista. Che spera di poter partecipare l’anno prossimo agli Oscar, magari in rappresentanza dell’Italia. “Il vostro contributo è stato forte e decisivo, da Marco Muller al montatore Jacopo Quadri a Carlo Crivelli, autore delle musiche”, racconta mentre lamenta lo scarso spazio che il cinema non americano ha nel suo paese. “Il mercato, da noi, è dominato dai film Usa, sono pochi i film cinesi che hanno successo in patria, ma ci mancano anche i film italiani o europei”. Un aiuto in tal senso verrà sicuramente dall’accordo bilaterale di coproduzione siglato con il nostro governo nel 2004 e pronto per diventare operativo proprio nel 2006, ufficialmente dichiarato anno italiano in Cina dopo la visita del presidente Ciampi. Incontri sono previsti a luglio a Shanghai, tra i vertici del ministero dei Beni Culturali e la viceministra cinese con delega alla cultura, mentre i produttori dei due paesi avranno occasione di gettare le basi per future partnership, come spiega il DG Cinema Gaetano Blandini. Scarso, aggiunge Zhang Yuan, è l’interesse del nostro governo per il cinema d’autore. “Molti grandi cineasti cinesi oggi prediligono le storie fantasy, il wuxia, perché sono film che consentono di mettere in piedi un budget pazzesco e una macchina produttiva enorme”. Ne è un esempio The Promise di Chen Kaige, proposto a Berlino fuori concorso e frutto di una coproduzione che ha coinvolto diverse realtà dell’Estremo Oriente e capitali occidentali per realizzare il film più costoso della storia del cinema cinese.

autore
15 Febbraio 2006

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