Una favola scura. C’erano una volta quattro fratelli – una femmina, 3 maschi – una famiglia e la loro storia: dopo un tempo che li ha mandati lontani, “in terra straniera”, la scomparsa del padre e il destino della vita che li chiama a raccogliersi. È inquieto e inquietante il secondo film da regista di Marco Bocci, La caccia, efficace nelle sue intenzioni e con una fine resa fotografica che le riflette, oltre alla muscolare sensazione che il regista sappia esattamente dove andare a parare. “Non è un metodo, ma avevo le idee chiare sul linguaggio del film: complicato e che deve essere anche disturbante. Gli attori hanno capito sapessi dove volevo andare, una sorta di protezione garantita dentro un percorso: una volta compreso e digerito potevo giostrarmi in ogni modo. Lì sono subentrati l’arricchimento e la sperimentazione degli interpreti”, spiega Bocci a Torino, dove accompagna il film, che debutta.
“Non possiamo cambiare la nostra natura … siamo il risultato di quelli che ci hanno cresciuto”, le parole di una terapeuta che parla ad un gruppo, a cui partecipa anche Silvia – Laura Chiatti, “125 giorni che non mi faccio, e sto benissimo”, che ribatte risentita: “ma che cazzo dice?!”; e ancora la dottoressa afferma: “ognuno ha il proprio passato, da accettare”, ma per Silvia: “non è mai troppo tardi per essere ciò che vuoi essere”.
La favola dei quattro fratelli ingegnosi dei Fratelli Grimm è entrata ne La caccia e Bocci spiega: “La favola di cui parliamo la leggeva ai bambini (del film) la madre, e racconta il percorso di quattro fratelli costretti a dividersi ma poi – a seguito del grande amore che gli era stato insegnato – con l’ingegno e con l’unione riescono ad affrontare avventure che nella vita potevano risultare pericolose per la propria esistenza, ma unendosi riuscivano a farsi forza. Questo era il mantra costante, che doveva raccontarci gli insegnamenti della madre, a contrasto di quello che poi facevano loro nella vita, un conflitto tra gli insegnamenti amorevoli che lei cercava di dargli e quelli ricevuti da parte del padre. Quale riusciva a vincere? Il film spiega che purtroppo molto spesso avere un’infanzia viziata da qualcosa di distorto può cercare di farti sopravvivere, di far prendere forza per il quotidiano, ma è chiaro che non riuscirai mai a dimenticarlo pienamente”.
Luca – Filippo Nigro lo conosciamo alla guida di una decappottabile sportiva; mentre il personaggio di Pietro Sermonti, Mattia, è un’artista, un “artigiano” nel suo laboratorio. E ancora, il rettore di un’università, a cui vuol iscrivere la figlia, dice al “Signor Rosati” – Paolo Pierobon, Giorgio – affetto “da epistassi sin da quando era bambino”: “sa che lei somiglia tanto a suo padre? Non s’imbarazzi, suo padre è stato nostro finanziatore per tanto tempo e lei sembra avere la stessa tempra … i figli dovrebbero sempre somigliare ai buoni genitori”.
Questi quattro quadri mostrano la prima “fotografia” dei fratelli Rosati, finché i rispettivi telefoni non iniziano a squillare… e da qui si apre la via per provare a cercare la chiusura col passato, tra chi non vuole l’eredità per non aver a che fare “con lui” e chi ne ha bisogno, come Silvia.
Per Bocci “è complicato dire come nasca il film, nessuno si augura che sia una mia esperienza personale ma prende spunto da una cosa del genere, un percorso che nasce dalla memoria: io quattro anni fa sono stato poco bene, ho avuto un’encefalite e questo mi ha provocato dei danni alla memoria, tantissime parti del mio passato le ho rimosse, non ricordo aneddoti miei da bambino, e anche adesso ho una memoria a breve termine, tante cose mi sfuggono; ragionando su questa cosa, mentre cercavo di accettarla, ho iniziato a fantasticare su quanto potesse compromettere l’esistenza di una persona non avere ricordi e quindi ho fantasticato anche se invece sarebbe potuto essere un bene averli rimossi oppure vivere dei ricordi immaginari, da lì è venuta questa storia, che prende spunto da un fatto a me accaduto, poi rielaborato nella mia testa, portandolo in un contesto contemporaneo”.
Per Pierobon: “Marco sin dalla prima telefonata ha dato l’impressione di avere tutto il film in testa, con soluzioni davvero eccentriche e questo mi ha fatto innamorare immediatamente della situazione: quando senti coraggio e convinzione, anche se poi ti andassi a schiantare, va benissimo. Con Sermonti, conosciuto e poi più visto da quindici anni, è scattata un’antica complicità”.
Mentre per Sermonti, “c’è anzitutto una premessa da cinefilo: rispetto al tepore di tanto audiovisivo, io sono sempre felice quando registro che si dà spazio ad autori le cui idee implicano un lato selvaggio; da attore, c’è stata la goduria del play e l’essersi calati in questo ambiente devastante, poi usciti dal set il vivere come dei bambini allegri, questo mi ha fatto provare il senso del fantastico del mestiere, riuscendo a precipitare nel buio pur vivendo in modo molto allegro. Marco ha tutto in testa, una struttura formale: mi sono fidato in modo smodato, le ‘mie corde’ con lui non le potevo suonare, per la sua idea precisissima, nitida. Mi piace anche che non ci sia tanta redenzione, che sia sgradevole il racconto”.
La caccia, oltre che titolo, è proprio memoria, quella dell’infanzia, quando il loro padre li portava con sé a cacciare, la stessa pratica che decidono di intraprendere come “scommessa”: ma quello che può “essere un gioco” più che ludico prende la forma del massacro, amplificato e incalzato da uno stridente, quanto eloquente, Jingle Bells a sottofondo del meno tenero e benevolo momento della vita tra fratelli.
Una produzione Minerva Pictures con Rai Cinema, il film uscirà al cinema l’11 maggio, distribuito da Medusa.
L’approfondimento video: guarda qui.
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