La distopia di De Heer, il Blackberry di Johnson, la passione di Atef

Parte a velocità ridotta il concorso berlinese con tre film diversissimi ma che non lasciano il segno: The Survival of Kindness, Irgendwann werden wir uns alles erzählen e Blackberry


BERLINO – Parte a velocità ridotta il concorso berlinese con tre film diversissimi ma che non lasciano il segno. E’ canadese Matt Johnson che ci racconta l’ascesa e caduta del blackberry nel film omonimo. Nel suo terzo lungometraggio, il regista si concentra sulla parabola dei due imprenditori dell’Ontario – il nerd Mike Lazaridis e il manager spregiudicato Jim Balsillie – che costruiscono nella canadese Waterloo (mai luogo fu più profetico) la fortuna di un portatile rivoluzionario perché permette di scrivere e scaricare le email liberandoci dalla schiavitù della scrivania. Un’idea geniale, quanto effimera, che deve il suo nome alla mora che Lazaridis sta mangiando in taxi, sporcandosi la camicia, mentre si prepara a incontrare i vertici di una importante società americana. Il regno del blackberry durerà pochissimo, perché la Apple sta per lanciare sul mercato gli iPhone e la quota di mercato dei canadesi passerà in breve dal 45% a zero. Film di dialoghi, situazioni e tensioni tra i personaggi, esclusivamente maschi, intrisi di cultura nerd, appassionati di videogame e fantascienza e seguaci di Star TrekBlackberry, che ha la sua prima ispirazione nel libro Losing the Signal: The Untold Story Behind the Extraordinary Rise and Spectacular Fall of BlackBerry di Jacquie McNish e Sean Silcoff, reporter del quotidiano canadese The Globe and Mail – scende molto nei dettagli con un linguaggio che bordeggia il documentario – anche se è una fiction a tutti gli effetti, con interpreti Jay Baruchel, Glenn Howerton, lo stesso Matt Johnson e Cary Elwes – e non lascia spazio allo spettacolo o a digressioni narrative, ma si concentra invece nella descrizione del brodo di culture alternative in cui germoglia la passione per un oggetto che è diventato una vera e propria protesi dei nostri corpi e device irrinunciabile nelle sue successive trasformazioni. “Molti film canadesi cercano di imitare Hollywood, noi abbiamo provato uno stile autonomo”, spiega il 37enne regista di Toronto. Che si è detto anche consapevole della “energia maschile tossica” che pervade il film e che lo riporta alle sue esperienze personali negli anni ’90.

La tedesca di origini iraniane Emily Atef ci trasporta nella DDR del 1990, subito dopo la riunificazione, con Irgendwann werden wir uns alles erzählen, dramma romantico di una 19enne divisa tra l’amore sereno e costruttivo per un coetaneo e la violenta passione erotica per un vicino di casa quarantenne ferito dalla vita e piuttosto brutale (leggi l’articolo). Mentre il suo paese ha da poco riconquistato la libertà di viaggiare, muoversi, studiare, la giovane Maria (Marlene Burow) che vive in un villaggio al confine tra le due Germanie in una fattoria insieme alla famiglia del fidanzato Johannes, appassionato di fotografia, preferisce leggere i romanzi di Dostoevskji che frequentare la scuola. Ogni tanto fa visita alla madre, separata e depressa, mentre un vicino di casa, tenebroso allevatore di cavalli, la attrae irresistibilmente. La regista, già alla Berlinale con Drei Tage in Quiberon su Romy Schneider, si è basata sul romanzo di Daniela Krien per costruire un melodramma denso e carnale che vuole anche raccontare un pezzo di vita dei tedeschi dell’Est: “La DDR è stata sempre rappresentata come un paese grigio, io volevo invece mostrarne la grande vitalità”, afferma l’autrice, una delle sei donne in concorso in questa edizione (per un totale di 18 film). 

L’australiano di origini olandesi Rolf de Heer (15 film al suo attivo tra cui Alexandra’s Project) porta invece in competizione il distopico The Survival of Kindness. Protagonista la notevole Mwajemi Hussein nel ruolo di BlackWoman. In un mondo dominato da una pestilenza e dalla sopraffazione dei bianchi – che indossano tutti maschere antigas – nei confronti delle altre etnie, una donna viene abbandonata nel deserto chiusa dentro una gabbia. Incredibilmente riesce a liberarsi e comincia un percorso che la porterà a scontrarsi con un mondo senza più pietà e quasi senza linguaggio verbale. Con evidenti e dichiarati echi della pandemia che abbiamo appena attraversato, il film è un assolo della protagonista, mossa da un desiderio irrefrenabile di vita e da una capacità di resistenza che la porta a sopravvivere a una serie di situazioni estreme, fino all’incontro con altri due fuggiaschi (Deepthi Sharma e Darsan Sharma), verso cui svilupperà quella “gentilezza” e quella pietas che sembrano sparite in un contesto dominato dalla violenza e dall’istinto di sopravvivenza. Film-metafora, The Survival vuole chiaramente essere un monito contro il razzismo ma anche la costruzione di un ritratto femminile originale ed eroico.  

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