La convergenza tra videogiochi e cinema è stata per anni un discorso. E basta. Recentemente è diventata realtà in alcuni film, grazie alla personalità, agli interessi e ai desideri di singoli registi. Ora è un’esigenza di mercato. Le medesime compagnie che lavorano nel cinema investono anche nella produzione di piccoli videogiochi (Annapurna ha pubblicato What Remains Of Edith Finch), gli attori di cinema e televisione cominciano a doppiare o lavorare in motion capture sui videogiochi e gli stessi studi di produzione cinematografica attrezzano teatri di posa per ospitare anche produzioni videoludiche. Proprio di questa fusione si è parlato nel panel Cinema e videogioco: modelli di interconnessione e collaborazione, tenuto ieri all’interno del MIA con la collaborazione di Istituto Luce Cinecittà (che da tre anni promuove il Rome VideoGameLab, un festival degli Applied Games) e di AESVI, l’associazione di editori e sviluppatori di videogiochi italiani.
L’incontro è iniziato con un’introduzione di Roberto Cicutto, presidente e amministratore delegato di Istituto Luce Cinecittà, seguito da un video inviato da Massimo Guarini dello studio di videogiochi Ovosonico il quale, non potendo essere presente, ha voluto contribuire da remoto. Guarini ha chiarito subito un punto fondamentale dando il via alla discussione sul binario migliore: “Cinema e videogiochi sono apparentemente affini ma effettivamente lontani, parlano linguaggi diversi […] Credo che però si possa aspirare ad una vicinanza vera dei due e per farlo serve un terzo linguaggio che è ibrido tra i due, creare un film e il videogioco nello stesso momento e penso che l’iniziativa debba partire dai videogiochi”.
Tra i panelist c’era Daniele Azara, narratore tra diversi media con una vasta esperienza nella videoludica (al momento è Head Of Games per One O One Games) ma anche romanziere e autore televisivo. Proprio lui ha fatto notare come al discorso di Guarini mancasse un tassello: “Se rimaniamo fermi al film tratto dal videogioco non andiamo da nessuna parte, e davvero non possiamo pensare che quella sia un’ibridazione seria”.
Gli ha risposto Elisa Fuksas, documentarista e regista di film di finzione che sta per uscire con The App su Netflix, un film in cui un uomo sviluppa un rapporto sentimentale senza sapere che la persona con cui parla è in realtà un’intelligenza artificiale: “Ho un rapporto scarso con i videogiochi. Non li ho mai giocati ma li conosco tramite i miei fidanzati che giocavano a FIFA. Ho una certa diffidenza nei riguardi dell’interazione, preferisco di più essere passiva, farmi raccontare una storia”.
Proprio questa prospettiva ha introdotto nel panel un punto di vista importante, perché fino a ad ora sono stati più che altro i game designer ad interessarsi all’altro medium e inglobarlo anche se non sempre in modi davvero interessanti.“Esempi come FIFA non sono buoni esempi di videogiochi, sono prodotti brutti” ha affermato Chris Darrel, Game Designer reduce dal successo di Remothered e pronto a lanciare il capitolo successivo “non possiamo immaginarci noi, come game designer, che il cinema nei videogiochi siano le cut scene o quei piccoli segmenti narrativi in cui si interrompe l’azione”.
Quando è toccato a Paola Randi, regista di Tito e gli alieni ma anche una delle donne coinvolte nella serie tv Luna Nera di Netflix, il panel è entrato ancora più nel vivo. Paola Randi infatti è cresciuta giocando alle prime forme videoludiche di massa (Pong), giocando a giochi di ruolo come Dungeons And Dragons (di fatto il primo vero ibrido di gioco e narrazione) o come i libro game (da cui viene Bandersnatch): “A me quella roba è sempre piaciuta, io quando ho visto Bandersnatch ho riconosciuto i giochi che facevo, ma è un mondo molto distante per noi ad oggi. Ovviamente mi piacerebbe saperne di più ma questo perchè sono interessata ai videogiochi come soggetto per una storia non al loro linguaggio come forma di una storia”.
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