TORINO – Il TFF ci offre la possibilità di mettere a confronto a distanza un padre e un figlio all’ombra della tragedia più grande del Novecento, la Shoah. A toccarci il cuore è il destino di un figlio sopravvissuto alle colpe del padre che hanno però occupato l’intera sua esistenza, allontanandolo dalla sua gente, emarginandolo e caricandolo di risentimento. Si chiama Wolf Murmelstein, è un uomo ormai anziano e sofferente, ma ancora soggiogato da quell’esperienza (a Terezin era un bambino con cui nessuno voleva giocare perché figlio di un traditore). Wolf è disposto a tutto per dimostrare che suo padre non aveva stilato le liste degli ebrei destinati alla camera a gas ed è pieno di acredine verso la comunità che li ha esclusi. In un dialogo con lo psicoanalista David Meghnagi, specializzato proprio nel recupero dei sopravvissuti all’Olocausto, Wolf si apre cautamente e lascia trapelare la sua angoscia, la sua disperazione, ma anche il suo orgoglio: lo conosciamo attraverso il documentario di Claudio Giovannesi prodotto da Vivo Film con Istituto Luce Cinecittà e con coproduttori della Repubblica ceca, che si intitola appunto Wolf e che il TFF ha proposto insieme a Le dernier des injustes, il film di Claude Lanzmann dedicato al padre di Wolf. L’87enne intellettuale e cineasta francese che ha dedicato la sua vita a comprendere l’incomprensibile con film come Shoah e Sobibor, 14 ottobre 1943, ha messo infatti al centro di questa nuova impresa (tre ore e 40′ di film, ma questo autore ci ha abituato alle lunghezze-monstre con le nove ore di Shoah) il recupero di una lunga intervista a Benjamin Murmelstein, ultimo presidente del consiglio degli anziani del ghetto “modello” di Terezin a 60 km da Praga. L’unico ‘anziano degli ebrei’, secondo la beffarda definizione dei nazisti, che non fu ucciso durante la guerra (o subito dopo). L’intervista risale al 1975 e fu registrata a Roma, durante un’intera settimana in cui Murmelstein accettò di parlare di tutto, con franchezza e intelligenza. Anche delle accuse di tradimento che pesavano su di lui e che lo portarono ad essere processato, e prosciolto dall’accusa di collaborazionismo, dopo la caduta del nazismo.
Rabbino di Vienna, Murmelstein si è dato da solo, con feroce autoironia, la definizione di “ultimo degli ingiusti”: vennero infatti uccisi gli altri due decani Jacob Edelstein e Paul Eppstein scelti dai nazisti come presidenti del Judenrat della città-ghetto, fatta costruire da Eichmann nel ’41 per ingannare il mondo e gli stessi ebrei. Theresienstadt è il titolo del film di propaganda realizzato nel ’44 dai nazisti stessi – e di cui il documentario di Lanzmann utilizza molte immagini – per mostrare le buone condizioni di vita: le partite di calcio, le docce, le conferenze scientifiche a cui avevano l’opportunità di partecipare, il cibo. In realtà Terezin, che poteva accogliere circa 7.000 persone, arrivò a ospitare 50mila ebrei deportati da Berlino, Praga e Vienna (e di lì passarono complessivamente 140mila esseri umani). Gli ebrei arrivavano volontariamente, convinti con l’inganno che avrebbero raggiunto una località termale. Ovviamente a patto che cedessero tutti i propri averi ai tedeschi. Proprio a Vienna iniziò, nel ’38, la frequentazione tra Murmelstein e Adolf Eichmann. E il rabbino vide il gerarca in azione nella Notte dei cristalli, quando vennero bruciate 42 sinagoghe. Un’altra volta Eichmann entrò nel suo ufficio con una pistola spianata, ma lui non mostrò mai la sua paura. In qualche modo si creò un rapporto tra i due e Murmelstein ebbe l’incarico di organizzare l’emigrazione forzata degli ebrei austriaci, dietro cui spesso si nascondevano vere e proprie truffe, con confische dei beni e passaporti inutilizzabili pagati a caro prezzo. In qualche modo riuscì a far espatriare, e dunque mettere in salvo, 121mila connazionali, mentre lui stesso rinunciò più volte alla possibilità di fuggire, persino quando fu mandato a Londra a parlare con il rabbino capo d’Inghilterra e scelse di tornare indietro. “L’ho fatto perché a Vienna c’era la mia famiglia, ma anche per spirito di avventura, per vedere cosa sarebbe accaduto”, spiega lui in modo disarmante. Mentre Lanzmann, che vuole restituire tutta la complessità dell’esperienza di quest’uomo, dice: “Da un certo punto in avanti non ha più avuto altra scelta che obbedire, ma si è battuto fino alla fine contro gli assassini, passo dopo passo. I nazisti volevano farne una marionetta, ma la marionetta ha imparato in qualche modo a muovere i suoi fili da sola”.
Lanzmann ha la qualità dell’ascolto totalmente aperto. Lascia tutto lo spazio e il tempo a Murmelstein per svelarsi. Non ha pregiudizi nei suoi confronti. Vuole autenticamente comprendere. E dunque raccoglie e trasmette a noi una testimonianza davvero straordinaria sui meccanismi del rapporto tra vittime e carnefici che spiega anche molti aspetti oscuri dell’Olocausto, come la difficoltà di ribellarsi (in Sobibor aveva indagato invece sui pochissimi ebrei che si rivoltarono contro i carnefici nel lager).
Benjamin Murmelstein è morto nel 1989 dopo molte sofferenze dovute alla sindrome del sopravvissuto e all’emarginazione di cui fu vittima. L’allora rabbino capo di Roma, Elio Toaff, che nel 1983 gli aveva negato l’iscrizione alla comunità, rifiutò di seppellirlo nella tomba della moglie. Ha lasciato un libro scritto in italiano, pubblicato nel ’51, in cui racconta la sua verità: Terezin, il ghetto modello di Eichmann.
L’ultimo degli ingiusti sarà distribuito da Andrea Cirla con uscite mirate a partire dalla Giornata della memoria (26 e 27 gennaio).
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