TRENTO – Se l’orsa JJ4 è protagonista delle cronache recentissime, e purtroppo c’è da indagare su M62 trovato senza vita in Trentino nelle ultime ore, non meno clamore suscitò M13 una decina di anni fa, quando fu abbattuto in Svizzera, in Val Poschiavo – cantone dei Grigioni.
Alessandro Abba Legnazzi – nella sezione Proiezioni Speciali del 71° Trento Film Festival – presenta L’ors, un film che in una parola sintetizza un soggetto e non solo “un caso”, tra l’altro cadendo in piedi nelle giornate in cui un omologo plantigrado femmina suscita lo stesso dibattito – plurale, ambientale e sociale. È un tema divisivo, che chiama in causa più di un aspetto appunto, creando fazioni, sfregiando rapporti, sfamando paure e armando battaglie legali.
I protagonisti della sua storia – realistici, quando non addirittura reali: i due guardiacaccia sono quelli che hanno davvero vissuto l’esperienza in prima persona – ripercorrono gli eventi che portarono all’abbattimento dell’orso: 5 narrazioni che si tessono tra loro e stimolano altrettante riflessioni sulla delicata convivenza tra essere umano e orso, soggetti conviventi in una natura sempre più antropizzata.
Alessandro, il suo film arriva a Trento in pienissima attualità: come inserisce L’ors nel dibattito in corso?
La premessa è che la mia storia succede in Svizzera, in cui c’è una situazione un pochino diversa, in primis loro non sono mai stati abituati alla convivenza con l’orso, M13 era il primo che passava in quelle zone dopo quasi cent’anni, incontrando una comunità che non era assolutamente preparata. Lì sono stati travolti da una situazione completamente inaspettata, altrettanto hanno delle norme molto più stringenti che in Italia, per cui hanno una strategia che prevede che in caso di pericolosità l’orso venga abbattuto. Non penso che abbattere sia la soluzione necessaria, piuttosto la riflessione dovrebbe andare oltre ‘abbattere’-‘non abbattere’, ma essere più centrata su cosa sia diventata la montagna e sul rapporto tra montagna e città.
Pensa il suo film possa concorrere – su più fronti, anche opposti – a offrire una visione immersa nel contesto ma al contempo metabolizzata e quindi di riferimento per ‘farsi un’idea’ sulla discussione?
È chiaro che il tempo trascorso aiuti: io sono tornato nella comunità in questione dieci anni dopo il caso, e sì c’erano delle ferite ancora aperte, però si ragionava con una certa lucidità. Gli argomenti che c’erano là nel 2013 erano quelli attuali italiani, appunto ‘abbattiamo-non abbattiamo’, oppure portiamolo in uno zoo, ma la mia sensazione, osservando quella circostanza, è che il tempo aiuterà. Io nel film ho provato a raccontare storie che provassero a dare un ventaglio collettivo.
Infatti, lei sceglie 5 storie per raccontare la vicenda di M13, come e perché ha selezionato proprio quelle che seguiamo nel film?
C’erano certamente più storie e un paio non sono infine entrate nel film, per cui quelle raccontate sono quelle più emblematiche: in primis quella dei guardacaccia, pieni di meraviglia nel trovarsi davanti a quest’orso, ma anche nella difficoltà ad affrontare la problematica senza avere delle vere indicazioni dai superiori, per cui si sono ritrovati da soli ad affrontare una comunità e una situazione complessa. Loro stessi l’abbattimento che hanno affrontato non l’hanno vissuto al meglio. Ancora, c’è la ragazzina che pare avesse incontrato l’orso, per una questione anagrafica interpretata da un’altra ragazza della comunità; poi c’è l’ingegnere agronomo che aveva tentato attraverso una serie di recinti elettrificati di trovare un modo per convivere con l’orso; e poi c’è il contadino che s’era trovato solo ad affrontare la situazione e dapprima aveva reagito in modo piuttosto scomposto, con un processo penale a seguire: lui è stato l’unico non interpretato dall’originale né da qualcuno della Valle, ma da un attore esterno.
Com’è stato mettere in scena persone che non solo non sono attori, ma sono coloro che hanno vissuto in prima persona la situazione?
È qualcosa che fa parte della mia personale ricerca, infatti ho passato tanto tempo con loro. In generale c’è stata una risposta positiva della comunità, che ha sposato sin da subito il progetto, al di là di chi ha partecipato come attore. C’è stato un rapporto onesto e chiaro, ho manifestato avessi bisogno di loro, che tutto dovesse partire dai loro racconti, tanto che c’è stata una scrittura condivisa: io raccoglievo informazioni da loro, poi scrivevo e rimandavo le parti a loro, che aggiustavano, integravano, ed è stato un processo che ci ha portati a 5/6 settimane di riprese. Lavorare con qualcuno che ha vissuto un’esperienza ti permette di dare delle indicazioni ma hanno già tutto il bagaglio al loro interno, rivivono un vissuto.
La sua intima esigenza di racconto da cosa nasce, invece? Da un volano ambientalista o altro?
Questa storia l’avevo ritrovata tempo fa perché io vengo da Brescia ma le mie origini sono nel Parco dell’alto Garda, dove nel 2012 c’era stato un caso di cronaca per cui un orso era passato, aveva fatto irruzione in un paesino e la mattina dopo se n’era andato, lasciando una comunità sottosopra. In generale, per me, l’idea che ci sia qualcosa di inaspettato che arrivi e crei panico, anche nella vita, mi dà ‘il là’: dopodiché il rapporto tra città e montagna è di mio interesse, ed è anche quello che sto portando avanti in questo momento. Non ho velleità ambientaliste, l’idea è raccontare, anche da un punto di vista più antropologico l’essere umano, difronte a qualcosa che non conosce e spaventa, e di conseguenza la reazione.
A proposito dell’essere umano che si trova di fronte a qualcosa di inatteso, di misterioso, per scrivere/girare ha accarezzato il genere horror o thriller, un racconto ‘scuro’?
Forse più il poliziesco, nella dinamica dei guardiacaccia: in particolare quello più adulto a me ricorda il detective della serie di Bruno Dumont, P’Tit Quinquin. C’è l’utilizzo della notte e qualcosa di oscuro forse deriva anche da questo.
Una scelta interessante e d’impatto è l’immagine della locandina, una maschera a profilo d’orso nera su fondo blu scuro: cosa racconta questa ‘prima immagine del film’, che ovviamente ha un continuum all’interno della visione?
È qualcosa di simbolico. È un personaggio realmente esistito, una persona che in un periodo di caos, mantenendo sempre il suo anonimato, ha deciso di aprire una pagina Facebook per raccontare quello che stava accadendo nel suo paese, ed è una pagina che in pochi mesi ha suscitato grandissimo interesse ed è diventata un luogo di aspre battaglie tra le persone. Lui è una persona che s’è sempre nascosta e l’idea della maschera è nata per nascondere sì l’identità seppur arrivi da uno spunto reale, perché decise di fare una diretta mascherato, per interagire con la comunità. Io questo personaggio l’ho conosciuto, e sicuramente è stato anche lui travolto da qualcosa che non s’aspettava.
La sua storia, a più riprese, restituisce la sensazione di essere ‘in guerra’: armi, spari, la tensione e la rabbia dell’essere umano. C’è una guerra sociale contro il soggetto orso? Mette in gioco degli interessi?
Non ho vissuto personalmente quel periodo in quel luogo ma credo che davvero ci fosse un clima pesante, con anche persone che dall’esterno fomentavano: io ne ho conosciuto uno quando ho realizzato il mio documentario sui lupi, una persona che s’insinuava per infuocare le situazioni. Altrettanto è vero che la Svizzera ha una grande tradizione di caccia, è quasi una religione: la caccia lì è anche un modo per mantenere in equilibrio l’ecosistema, che di fatto succede anche in Slovenia. Il contadino che poi ha deciso di non partecipare al film ha vissuto davvero un trauma incredibile, perché non si sentiva tutelato, aveva avuto più capi uccisi e ha reagito come lui pensava che fosse efficace: ho trascorso molto tempo con lui, è una persona molto buona, ma quella circostanza gli ha fatto perdere la testa.
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