“L’Iran viene considerato un po’ una colonia russa e il governo del mio Paese appoggia oggi il governo di Putin, ma la gente la pensa diversamente ed è triste per quello che accade in Ucraina. Tutti provano grande empatia per il popolo ucraino”, così il regista iraniano Mohammad Rasoulof in collegamento Zoom per presentare Il male non esiste, Orso d’oro come Miglior Film alla Berlinale 70 e dal 10 marzo nelle sale italiane, distribuito da Satine.
Rasoulof, condannato nel 2010 dalla corte rivoluzionaria iraniana e sempre censurato dal suo Paese (nessuno dei suoi film è stato mai distribuito in Iran), ha poi aggiunto: “Certo il mio film parla indirettamente anche di Ucraina perché affronta il problema della responsabilità individuale. E nel caso dei soldati russi ci si deve porre la domanda: perché sono costretti ad ubbidire e partecipare a questa guerra sparando ad altri uomini”.
Lungo l’arco di due ore e mezza, Il male non esiste inanella quattro novelle morali apparentemente separate ma che dialogano tra loro, con il ritorno di situazioni e personaggi tutti legati al tema della pena di morte e della legittimità di togliere la vita a un’altra persona, sia pure nei termini stabiliti dalla legge, ma anche della possibilità di esprimere una libera presa di posizione all’interno di un regime e dunque opporsi agli ordini. In sostanza il tema affrontato dal classico di Hannah Arendt La banalità del male.
Heshmat è un padre e marito modello. Lo vediamo tornare da lavoro e solo un po’ di inquietudine la desta quel sacco che trasporta nel portabagagli, ma scopriamo poi che è una scorta di riso per la famiglia. Durante un giornata con moglie e figlia fa la spesa, passa l’aspirapolvere nell’appartamento di sua madre e tinge i capelli alla consorte con cui dovrà partecipare a una festa di matrimonio. La mattina dopo punta la sveglia all’alba per tornare alle sue mansioni consuete: scopriremo quali.
Pouya è un militare di leva – in Iran la leva obbligatoria dura due anni ed è indispensabile assolvere l’obbligo per poter lavorare o avere un passaporto – distaccato nel carcere speciale, è disperato perché dovrà prendere parte a un’esecuzione capitale per la prima volta, un commilitone lo incoraggia, un altro è disposto a prendere il suo posto in cambio di una grossa cifra di denaro.
Javad torna in licenza per tre giorni per chiedere in sposa la fidanzata che adora, ma la trova addolorata per la morte di un caro amico e mentore che è stato giustiziato per motivi politici. Infine Bahram, un medico che si è ritirato in un villaggio rurale insieme alla moglie, accoglie la visita di una giovane nipote cresciuta in Germania a cui deve rivelare un segreto.
“L’anno scorso – spiega Rasoulof – ho incontrato per caso per strada uno degli uomini che mi aveva interrogato. E’ stata una sensazione indescrivibile. Senza che ne fosse consapevole, ho iniziato a seguirlo. Erano passati dieci anni, era invecchiato, volevo fotografarlo col cellulare, volevo affrontarlo e urlargli in faccia le mie domande. Poi l’ho guardato meglio e non riuscivo a vedere un mostro. In che modo le regole autocratiche modificano le persone fino a farne ingranaggi della macchina autoritaria? In questi paesi il solo scopo della legge è conservare lo Stato e non regolare e facilitare i rapporti tra le persone. Vengo da uno Stato di questo tipo e mi sono chiesto: come cittadini responsabili abbiamo una possibilità di scelta quando ci chiedono di eseguire ordini disumani? Come esseri umani, in che misura siamo responsabili dell’esecuzione di questi ordini?”.
La figlia del regista Baran Rasoulof, cresciuta in Germania come il personaggio che interpreta e che serve da collante tra il secondo e l’ultimo episodio, a Berlino aveva spiegato l’uso della canzone Bella ciao, molto conosciuta in Iran dove esiste anche una versione in farsi diventata l’inno della gioventù scesa in piazza a protestare, inno alla resistenza.
I quattro episodi sono stati girati separatamente, come se fossero cortometraggi, aggirando il divieto che pende su Rasoulof e senza chiedere permessi. Il regista, nato a Shiraz nel 1972, ha avuto difficoltà con la censura per tutti i suoi sette lungometraggi. Nel 2010 è stato arrestato sul set insieme a Jafar Panahi e condannato a un anno di prigione. Ha vinto numerosi premi internazionali, tra cui il premio di Un Certain Regard a Cannes 2017 con A Man of Integrity. Ed è stato proprio al suo ritorno da Cannes, in quella occasione, che gli è stato sequestrato il passaporto.
Accompagnato dal portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, il regista afferma :”Bisogna avere il coraggio di guardare la realtà, una cosa ancora più necessaria in un regime totalitario. Le gente in certe realtà vive come in una bolla e si abitua a sentire tante menzogne anche politiche che si scambiano alla fine per vere. Ora sta proprio all’artista squarciare i veli, guardare nell’oscurità e sparare luce nel buio”. E ancora: “Essere censurati è una cosa che conosco molto bene e che ho sperimentato non solo nell’ambito artistico, ma anche nelle mie scelte giornaliere, ma di fatto – ribadisce – è una struttura che deforma la realtà e devo dire è molto doloroso sentire tante notizie false. La censura è come una tenda che ha isolato la gente iraniana rispetto al resto del mondo”.
Infine, sulla censura agli artisti russi, non ultima quella del Festival di Cannes: “Una cosa è proibire un’opera che nasce come espressione del regime, altra cosa è impedire ad un artista di partecipare. In quest’ultimo caso il discorso è più complesso. Non è infatti detto che questo artista condivida le idee del suo Paese”.
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