Sebbene siano innumerevoli i film dedicati alla Shoah, pochi sono stati i soggetti che hanno approfondito il tema specifico della storia dei cosiddetti “figli della Shoah”, di quei bambini e bambine ebrei, ormai persone adulte, che sono nate da genitori sopravvissuti ai lager o fortunosamente scampati ai rastrellamenti dei nazifascisti. Israel Moscati – che è uno di loro – si è prefisso, scrivendo il documentario I figli della Shoah, che viene presentato nell’ambito del festival internazionale del film di Roma, e affidandone la regia a Beppe Tufarulo, lo scopo di percorrere un viaggio nell’anima di questi ragazzi, dopo anni di domande poste ai propri genitori, spesso rimaste inevase o con risposte insoddisfacenti. Ogni storia rimaneva avvolta in un silenzio difficile da scalfire. L’idea originale consiste nel porre i bambini di oggi, pronipoti degli scampati ai lager, come fonte primaria di speranza per un futuro che non dovrà mai più ripetersi, affrontando con la narrazione di storie le domande pressanti dei bambini stessi.
La scelta delle quattro V classi elementari della scuola ebraica “Vittorio Polacco” di Roma è precisa. Roma fu infatti teatro di una crudele vendetta da parte dei nazisti e da questa stessa scuola furono deportati 115 bambini ebrei (tra questi quattro zii di Israel) che non fecero più ritorno. Il racconto si snoda in classe, sotto le crude e dirette domande delle scolaresche, la spinta e l’entusiasmo dei bambini nel voler conoscere le storie di sopravvissuti lontani diventa il filo magico che unisce il rapporto tra le generazioni.
“Il dramma della Shoah – dice il regista – ha lasciato un’impronta indelebile non solo sui sopravvissuti ai campi di sterminio ma anche sulle generazioni successive. Il trauma subito ha portato ad un immenso vuoto fisico ed emotivo con cui i superstiti si sono trovati a convivere. Il loro senso di colpa per essersi salvati ha reso molto difficile la capacità di vivere una vita normale a guerra finita ed ha, di conseguenza, reso complicata la costruzione di successivi legami familiari. Eccolo, dunque, il pesante fardello dell’olocausto che, oltre ad aver lacerato i genitori ha colpito anche i figli di seconda generazione che sono cresciuti con la consapevolezza di un vuoto affettivo da dover colmare silenziosamente con le proprie forze. Da questa premessa nasce un documentario che vuole indagare nell’animo e nelle emozioni di tutti i protagonisti coinvolti. Nelle loro parole e nei gesti involontari sono sedimentate tracce di esperienze passate, espressioni di dolore che si fanno memoria, testimonianza e coraggio. Via via emergono con forza le tensioni, le difficoltà ed il volume delle paure che da sempre li accompagna, coinvolgendo lo spettatore in un caratterizzante ed unico percorso umano. Il documentario non ha l’intento di produrre sedute psicanalitiche ma di restituire racconti commoventi vissuti e narrati in prima persona, che culminano nella consapevolezza di provare ad elaborare il proprio lutto attraverso il rapporto e il confronto con i nipoti. Un percorso di ricerca oggi, di vita che calca il passato, che taglia l’oggi e lo presenta al domani”.
L'assessore alla Cultura, Creatività, Promozione Artistica e Turismo di Roma Capitale annuncia: "Il Festival tornerà alla sua vocazione di Festa"
Lascia l'incarico assunto nel 2012 per approdare al Touring Club: Un'opportunità maturata tempo fa e che mi è sembrato corretto mantenere riservata fino ad oggi per non interferire con l'andamento del Festival"
Bilancio positivo per Wired Next Cinema, la sezione parallela al Festival di Roma dedicata ai nuovi linguaggi dell'audiovisivo. Spunti interessanti dall'illustratrice Olimpia Zagnoli sui formati brevi e le nuove forme di creatività. Tra gli appuntamenti più seguiti, soprattutto dal pubblico di giovani, gli incontri con le star del web Maccio Capatonda, The Pills e The Jackal, tutti alle prese con l'esordio sul grande schermo
Parecchi italiani tra i premiati alla nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Tra loro Andrea Di Stefano, esordiente con Escobar, prodotto all’estero, che ha rivendicato il suo orgoglio di regista italiano formatosi con Blasetti e Sorrentino, e il loquace Roan Johnson che si è definito “un sognatore a occhi aperti. Vedevo che Fino a qui tutto bene procedeva alla grande e mi dicevo ‘magari può andare a un festival e vincere’. Ma poi anche ‘sta’ bonino… un ci pensare. Temevo la mazzata. E invece siamo qui”