L’autobiografia kolossal di Iñárritu

Il regista messicano due volte premio Oscar torna dopo sette anni con Bardo La cronaca falsa di alcune verità, in alcuni cinema selezionati dal 16 novembre e su Netflix dal 23 dicembre


Non capita spesso che un autore, dopo avere raggiunto il successo di pubblico e critica con un’opera, anzi dopo averlo addirittura rafforzato con quella successiva, decida letteralmente di scomparire per anni, per poi tornare con un nuovo lavoro, totalmente e volutamente fuori da ogni logica di mercato.

È quello che ha fatto Alejandro González Iñárritu, dopo il clamore e i premi per Birdman The Revenant, con il suo nuovo attesissimo film, Bardo La cronaca falsa di alcune verità, prodotto da Netflix che lo manda in sala in alcuni cinema selezionati dal 16 novembre e sulla piattaforma dal 23 dicembre, dopo essere passato in Concorso alla Mostra di Venezia. Come già successo con un altro regista messicano da Oscar, Alfonso Cuarón, con Roma, ma anche con Martin Scorsese e The Irishman, quando Netflix dà carta bianca a un autore, questi probabilmente decide di raccontare qualcosa che gli sta molto a cuore e, soprattutto, di prendersi tutto il tempo necessario per farlo.

Bardo, infatti, è un’opera monumentale: lunga praticamente tre ore (ma arriva in sala in un new cut di 159′) quasi del tutto priva di struttura narrativa e, come ammette lo stesso autore, di “logica”. Protagonista è Silverio, un giornalista e documentarista messicano di grandissimo successo interpretato da Daniel Giménez Cacho, emigrato da anni negli States e che proprio a Los Angeles si appresta a ricevere un importante riconoscimento. Non ci vuole molto per lo spettatore a sovrapporre la figura del regista a quella di Silverio (che tra l’altro è acconciato in modo da assomigliargli anche fisicamente) e il film non fa altro che aumentare queste similitudini di scena in scena. Bardo, insomma, si ispira alla vita di Iñárritu, ma non è un film biografico nel senso letterale del termine. Perché per quanto prenda a piene mani dall’esperienza personale dell’autore, racconta una storia del tutto di finzione. Anche se, il confine tra reale e immaginato non è mai stato così labile.

“Penso che viviamo in un mondo di finzione, dove la realtà non è esiste. – spiega il regista – E penso che a un certo punto tutti ce ne rendiamo conto. Alla mi età capisci che tutte le storie e i ricordi sono solo un tentativo per dare un senso alla tua vita. Ma gli eventi che accadono sono interpretati da te stesso attraverso le tue idee, le tue emozioni. Un’altra persona li interpreterebbe diversamente. È per questo che il personaggio dice che la memoria non possiede verità. Non proverei mai a realizzare qualcosa di biografico, perché sarebbe noioso. Questo film è più un tentativo di identificare eventi, ricordi, sogni, aneddoti, pensieri, paure, che mi hanno formato negli ultimi vent’anni. 21 anni fa abbiamo lasciato il Messico. È un anniversario che mi sconvolge perché chiude un cerchio, proprio come fa il film. È un tentativo emozionale di dare un senso a cose che non ce l’hanno. Non c’è logica in questo film. I sogni spesso non hanno logica. Niente è più noioso della verità, mi piace l’interpretazione della verità”.

Fin dalle prime scene siamo buttati in un mondo surreale, in cui è lampante che tutto ciò che accade è filtrato dalla psiche del protagonista, come in una specie di sogno ad occhi aperti. In qualche modo, Silverio deve affrontare diversi nodi irrisolti della sua vita e del suo rapporto con gli altri. Primo tra tutti la sua condizione di esule “di prima classe” in una nazione, gli Usa, che ha soggiogato il suo paese d’origine. Proprio lui, narratore impegnato nel sociale, è scappato in un altro Stato lasciandosi tutto alle spalle. “Nella tradizione buddista il bardo è una sorta di limbo, uno spazio prima del paradiso e della rinascita. Io sono molto americano per i messicani e molto messicano per gli americani, sono senza patria. Questa è la condizione degli immigrati. Tu cammini sul bordo del bicchiere, sei molto vulnerabile, non sei né dentro né fuori. Non sono lo stereotipo dell’immigrato che si ha in mente. Fin dal mio primo film, Amores perros, ho avuto l’opportunità di cercare un futuro in un territorio in cui vivo ormai da 21 anni. Sono andato in Sicilia qualche anno fa e ho parlato con queste persone che sono scappate dalla fame e dalla violenza. Io sono un immigrato privilegiato, di prima classe”.

Il film è una giustapposizione di scene che di colpo sfociano nel surreale, un po’ come accadeva in Birdman, o addirittura nel meta-testuale. Come quando un personaggio fa una vera e propria critica dell’ultimo film di Silverio, Falsa crónica de unas cuantas verdades (proprio come il sottotitolo di Bardo), sovrapponendolo in maniera evidente a quello che lo spettatore ha visto fino a quel momento e definendolo addirittura “inutilmente onirico”. In questa struttura e in tanti altri riferimenti (il regista in crisi, il pagliaccio, l’uomo volante), non si può non cogliere un richiamo al cinema di Federico Fellini e, in particolare, al capolavoro 8 ½.

 “Non credo che esista un regista che non sia influenzato da Fellini, come se un musicista non fosse influenzato da Bach. – conclude Iñárritu – Ci sono alcuni registi che sono cattedrali, sono i grandi maestri, Fellini è uno i questi, o Luis Bunuel, Roy Andersson, Alejandro Jodorowsky, questo sono i registi che ci aiutano a capire come il cinema può essere usato come un sogno. Bunuel ha detto che un film è un sogno che è stato diretto. Nei sogni il tempo e lo spazio si sciolgono. Il cinema cambia il modo in cui pensi e sogni. Ho cercato di non essere logico in questo film. E spero che San Fellini mi abbia protetto nel farlo”.

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14 Novembre 2022

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