Kusama, la mia vita (apparentemente) a pois

Un documentario sull’artista Yayoi Kusama, la vivente più venduta nel mondo, per cui il pois s’è fatto arte, tra psicopatia e talento


L’artista di sesso femminile vivente più amata e venduta nel mondo, Yayoi Kusama, “quella dei pois” per i più, viene raccontata in un documentario biografico, Kusama – Infinity, primo film a lei dedicato, in sala dal 4 marzo con Wanted Cinema e Feltrinelli Real Cinema, diretto da Heather Lenz

“Dal punto di vista di chi crea, tutto è una scommessa, un salto nell’ignoto”: con questa frase, apicale alla sua biografia per immagini, Kusama, artista giapponese che questo mese compirà 90 anni, prende per mano lo spettatore, iniettando, con queste parole che descrivono la sua arte e dunque lei, il senso di tutto quello che c’apprestiamo a guardare, conoscere e scoprire dell’artista multicromatica e pop.

Pois luminosi rossi, verdi, bianchi, blu. Microscopici, giganti, mobili e immobili, aprono il racconto per immagini, scelta visiva che sostiene il profilo artistico di Kusama, connessa a doppio nodo con il tratto tondo per eccellenza: ha cominciato a fare arte all’età di 10 anni, ci racconta in prima persona questa anziana signora nipponica dalla fluorescente capigliatura arancione, e “sin dall’infanzia dipingevo sempre punti. Quando li vedo i miei occhi sono più luminosi, e ne sono quasi commossa”, così l’artista spiega il suo rapporto esclusivo con il pois, che spesso è “rete”, come dice lei stessa, poiché “le emozioni dentro ai miei quadri sono subconsce o psicosomatiche”, queste le parole usate per raccontare una diagnosi di nevrosi ossessivo-compulsiva che abbraccia anche un’espressa distanza dal sesso. “La mia opera si basa sulla trasposizione in arte dei miei problemi psicologici”, continua Kusama, che vive in un ospedale psichiatrico, cosa che non impedì però la sua partecipazione alla Biennale d’Arte di Venezia nel ’93, periodo in cui le sue opere erano in grande spolvero, tanto da dedicarle la prima “personale” al padiglione del Giappone. 

Accanto alla sua voce anche il racconto di altre persone tra cui: la curatrice della sezione di arte asiatica per il Guggenheim Museum, la sua pari del Matsumoto Museum, una psicoanalista e collezionista d’arte, la direttrice della Tate Modern di Londra, una docente di Storia dell’arte dell’Università del New Jersey, tutte testimonianze che raccontano sequenze di infanzia e adolescenza dell’artista, da cui emerge un cattivo rapporto familiare, dove, in particolare, “mia madre voleva diventassi una casalinga”, ricorda lei.   

Sono stati i fiori, le migliaia da cui era circondata da piccola perché la famiglia era impegnata nell’imprenditoria agricola e floreale, a influenzare il suo immaginario, quello affidato anche a Georgia O’Keeffe, pittrice “precisionista” americana, e mito di Kusama, a cui la stessa artista, quando giovanissima, comunicò il suo talento e il suo sogno con delle lettere e l’invio di acquerelli, trovando nella donna un supporto morale e un impegno operativo nel procacciare alla piccola giapponese occasioni per esporre. “Nonostante i numerosi ostacoli, scommettendo sulla propria vita, comunque partì” per gli Stati Uniti. Kusama fu uno dei primi artisti giapponesi che nel dopoguerra arrivò a New York, era il 1958. “Appena arrivata salii in cima all’Empire State Building. Promisi a me stessa che avrei conquistato la città e mi sarei fatta un nome nel mondo con la mia passione per l’arte”, così racconta Kusama del suo arrivo in America, alla conquista del globo. Oggi il suo studio d’arte vive a due caseggiati dall’ospedale, lei si reca lì ogni giorno per lavorare, poi la sera rientra nella struttura medica, continuando così a usare “il suo trauma per fini straordinariamente produttivi”.

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01 Marzo 2019

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