CANNES – Takeshi Kitano è un mito vivente: attore, regista, sceneggiatore, conduttore televisivo, comico, in pochi hanno influenzato la cultura giapponese in maniera così ampia e sfaccettata come lui. Vincitore di un Leone d’oro e di un Leone d’argento alla miglior regia, il 76enne autore giapponese ha reinventato il genere noir, specializzandosi nel racconto della yakuza. Il tutto senza mai dimenticare il suo smaccato senso dell’umorismo che non disdegna l’effetto slapstick, come ben ricordano gli spettatori del suo programma tv di culto Takeshi’s Castle. Al 76mo Festival di Cannes, Kitano – nato lo stesso anno della prima edizione della kermesse – torna con uno dei suoi progetti più ambiziosi, Kubi, il suo primo film incentrato sul mondo dei samurai.
Ispirato a un fatto storico reale accaduto nel tardo ‘500 in Giappone, Kubi racconta del tradimento di Araki Murashige, il migliore generale del temuto Signore della Guerra Oda Nobunaga, disposto a tutto pur di avere la testa del ribelle, anche concedere la propria eredità di leader a chi ci riuscirà. Fin dalle prime inquadrature, è chiaro che il film punterà molto verso lo splatter e il pulp, con un numero tale di teste tagliate, arti mozzati, sbudellamenti ed esecuzioni sommarie da far impallidire in un colpo solo tutta la cinematografia di Quentin Tarantino (che tra l’altro sarà tra i prossimi ospiti di Cannes). Il focus sulla decapitazione, in particolare, si legge già dal titolo – che in giapponese significa “testa” – e sarà ricorrente per tutto il film, fino al climax finale: la messa in scena del “l’Incidente di Honnō-ji“, un massacro realmente accaduto nel tempio a Kyoto nel 1582.
Seppure il film si concentri ossessivamente sulla violenza, in linea con quelli che erano i tempi raccontati, Kitano non dimentica il suo stile giocoso e brillante. Quasi tutti i personaggi contemplano elementi grotteschi e sopra le righe, che allontanano il racconto dalle pretese di realismo in favore di un ritmo alto e di una incalzante spettacolarità. Un tono pop che probabilmente ha convinto Thierry Frémaux ha non inserire il film in concorso – al quale Kitano ha già partecipato due volte –, preferendo relegarlo nella sezione secondaria Cannes Première, nonostante questa possa essere l’ultima opera del grande autore. “Se i miei film piacciono, ne sono contento – precisa Kitano – ma con l’età ho perso l’ansia degli applausi, faccio il mio lavoro e guardo il risultato. Questa volta sono contento”.
Il film probabilmente sarà un enorme successo in Giappone. Più difficile immaginare una distribuzione capillare nel nostro paese a causa del forte gap culturale di un lungometraggio ricco di personaggi e di situazioni complesse da interpretare per un pubblico occidentale. Non a caso, nonostante le magnifiche scene di combattimento e di guerra, gli splendidi costumi e le gag, in tanti hanno lasciato la sala nel bel mezzo dell’anteprima alla presenza del regista. Non un bel responso per un film che vuole piacere principalmente al grande pubblico. L’ultima opera di Takeshi Kitano potrebbe essere insomma la più ambiziosa e, al tempo stesso, rimanere relegata per lo più nella sua madre patria.
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