VENEZIA – Un avamposto del mondo, forse assente per gli uomini, ma non dimenticato da Dio: un monastero russo in cui vivono Natasha (Natalya Pavlenkova), una suora, e i propri tremendi ricordi.
Sono passati poco meno di vent’anni dall’attacco terroristico al Teatro Dubrovka – era il 2002, 40 militanti armati ceceni sequestrarono e tennero in ostaggio circa 850 civili, rivendicando la fedeltà al movimento separatista e chiedendo il ritiro dei militari russi dalla Seconda Guerra Cecena: la religiosa decide di tornare a Mosca, l’occasione è una commemorazione – per la precisione una “conferenza”, da cui il titolo del film, Konferentsiya (Conference) – per le vittime, che lei ha deciso di organizzare, anche perché testimone della tragedia, una lacerazione del tessuto umano quasi dimenticata dalla società tutta, o considerata un peso da chi ne mantiene la memoria.
Lo scrittore e regista Ivan I. Tverdovskiy mette in scena i ricordi, da cui emergono dettagli oscuri, della vita stessa di Natasha: il film – coproduzione italiana con Russia, Estonia e UK, apre la Selezione Ufficiale delle Giornate degli Autori, e cuce parallele la questione privata, e quella socio-terroristica di uno dei reali fatti di sangue più tremendi del XXI Secolo; la questione intima, dunque, offre lo spunto per evolvere su quella politica e collettiva, in un’indagine che va all’essenza della paura.
L’inquietudine abilmente innescata dal film, con l’occasione della serata di conferenza, vive nel ricreare, da parte della protagonista, una sorta di emulazione dell’essere ostaggio di una situazione, forse necessità personale per metabolizzare, forse bisogno di rinnovare quel ricordo ancora vivissimo con un processo che sia al contempo di memoria ma anche di elaborazione “del lutto”: il regista, con questa prassi, crea così un’apprensione e un tormento sulla scena, quanto nello spettatore, indubbiamente anche con la scelta della collocazione iconica e impattante di manichini di tela plastica nella sala dell’incontro, un simbolo intriso di significato e una visione estetica pregna di una sfaccettata simbologia, soprattutto se considerata insieme alla finale messa in scena della scultura della Pietà michelangiolesca, opera di per sé colma di dolore e pietas.
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