Ken Loach e il nuovo sfruttamento della working class

Il regista britannico Ken Loach presenta in Concorso il film Sorry We Missed You, denuncia della situazione dei lavoratori in Europa


CANNES – “Dopo aver terminato I, Daniel Blake, avevo pensato: ‘Bene, forse questo è l’ultimo film’, ma quando siamo stati agli empori solidali per le nostre ricerche, molte persone erano lì per cercare lavoro – a tempo parziale, a contratto zero-ore. Questo è il nuovo sfruttamento. Così man mano è emersa l’idea che forse ci fosse un altro film che potesse valere la pena fare, non esattamente un seguito di I, Daniel Blake, ma un film correlato”, queste le parole del regista britannico Ken Loach per spiegare la nascita di Sorry We Missed You, film in Concorso, dopo la Palma d’Oro del 2016, che lo stesso autore considerava all’epoca il suo ultimo film.

Il racconto di Ken Loach, 82 anni e frequentatore ricorrente e premiato della Croisette (I, Daniel Blake, Palma d’oro 2016; La parte degli angeli, Premio della Giuria 2012; Il mio amico Eric, Premio della Giuria Ecumerica 2009; Il vento che accarezza l’eba, Palma d’oro 2006) nasce da una domanda, come lo stesso Loach dichiara: “È questo un sistema sostenibile?”. E ancora prosegue, con l’interrogativo: “Davvero vogliamo un mondo in cui le persone lavorano sotto pressione, con effetti distruttivi sulla propria famiglia e gli amici, soffocando le proprie vite?”. Da queste premesse nasce Sorry We Missed You, un film con protagonista una famiglia media britannica – Ricky, il padre, Abby, la mamma, Seb, il figlio adolescente e Liza, la bambina più piccola. Ricky (Kris Hitchen) è un innestatore, come lui stesso si definisce, lavorava nell’edilizia: il collasso economico porta lui e la moglie, l’attrice Debbie Honeywood, a non poter più sostenere il mutuo; lei è una dolce e instancabile badante a domicilio, case a cui approda ogni giorno dopo ore trascorse tra estenuanti attese di autobus e lunghi tragitti, poiché è stata costretta a vendere la propria utilitaria per permettere al marito di diventare “imprenditore”, affittando un van da una grossa società di spedizione che, con regole restrittive, orari disumani e vincoli economici sfavorevoli, dà opportunità di lavoro, generato a monte dal mastodontico e mondiale movimento degli acquisti in rete. La necessità di sopravvivere al quotidiano innesca la difficoltà di curare l’intimità familiare: Seb è un adolescente un po’ inquieto scolasticamente e Liza una bambina vivace, empatica, ma giustamente bisognosa della presenza dei propri genitori.

“Il film cerca di mostrare i dettagli della vita reale della working class – spiega Loach – L’insostenibile cambiamento in atto dà sicurezze e insicurezze. Ricky nel film affronta più rischi che benefici: tra i rischi di queste modalità di lavoro c’è quella di mettere troppo in gioco se stessi. La prima idea con lo sceneggiatore Paul Laverty era quella di mettere in luce la dinamica familiare”, come anche lo scrittore conferma, puntualizzando come le modalità del lavoro contemporaneo dettate dalle multinazionali globalizzate inneschino “una catena che costringe ad essere incapsulati, a vivere come dentro un bunker”, metafora che il film mostra espressamente, rendendo perfettamente l’idea dell’inscatolamento forzato della vita umana.

Il film ha una circolarità narrativa e visiva: inizia su nero, con la voce fuori campo di quello che scopriremo poi essere Ricky, le parole descrivono la sua professione: “è una scelta suggestiva, non volevo essere specifico, ma ‘far parlare’ tutte le persone”, ha spiegato il regista, che usa il suo protagonista anche in chiusura, quando lui, nonostante un incidente sul lavoro, “si rinchiude” nel suo van e corre a lavorare. Nel mezzo una scena chiave, quella in cui marito e moglie, proprio a seguito del sinistro che lui ha subito, sono in ospedale ad attendere il referto delle radiografie e Ricky riceve una telefonata formale e dettagliata di oneri a suo carico da parte del datore di lavoro: “Questa scena mostra l’impossibilità a reagire, è la realtà”, chiosa tristemente Ken Loach.

Il film è stato girato in poco più di cinque settimane a Newcastle, “una piccola città nel Nord, un po’ separata dal resto del Paese, cosa che credo renda le personalità dei personaggi più intense; ci sono anche molte costruzioni industriali lì, cosa che contribuisce fortemente: un’ambientazione urbana attuale, ma non affollata di turisti, penso serva per dare eco allo spazio in cui vive la famiglia, anch’esso protagonista del contesto narrativo”.

Un film intenso perché lo spettatore riconosce in quella vita non una possibile dimensione sociale, ma dettagli in cui ciascuno può quotidianamente identificarsi, pur non praticando un lavoro necessariamente affine: il film tocca e commuove perché, oltre a denunciare il “progresso” di un sistema socio-economico che ha un impatto drammatico sulle persone, riesce anche a puntare la luce sulla reale difficoltà di ciascuno di noi di far convivere parallelamente la propria vita personale, cercando di curare gli affetti, mantenendo al contempo una dignità professionale, che spesso ruba linfa all’essere umano, ricadendo rovinosamente sulla propria struttura sociale più intima.

Un film di denuncia, un film politico: “È difficile dire se questa dinamica della globalizzazione potrà cambiare: le grandi multinazionali dominano, propongono prezzi sempre più bassi, e in fondo offrono lavoro, si potrebbe… addirittura dire che propongano una costruzione sociale. Il cambiamento deve iniziare dalle garanzie della sicurezza, vanno pretese: deve essere fatto un lavoro di reciproco supporto a livello europeo. Non mi sembra che il film abbia una posizione di estrema sinistra: piuttosto mi sembra ci sia rabbia, paura, costrizione al precariato, assenza di speranza. E la Sinistra, almeno in Gran Bretagna, fornisce un po’ di speranza, mentre le Destre europee danno soluzioni troppo facili”.

Con riferimenti ad Amazon, Davos, Oxfam, lo sceneggiatore Paul Laverty fa notare come “un grande narratore sta mostrando la fragile condizione del mondo, questo perché c’è bisogno di un grande cambiamento e per farlo dobbiamo interrompere questa routine e usare le tecnologie come opportunità”.

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