Juliette Binoche: “Camille Claudel c’est moi”


BERLINO – Tutto è nato da una telefonata di Juliette Binoche a Bruno Dumont. L’attrice francese, che da qualche anno a questa parte si diverte molto a spaziare concedendosi a registi come Kiarostami e Hou Hsiao Hsien, ha detto all’autore di L’Humanité e Hors Satan che voleva lavorare con lui. E lui, dopo averci riflettuto un po’, ha capito che Juliette doveva essere Camille Claudel negli anni del suo internamento in ospedale psichiatrico. Anzi, in un anno ben preciso, il 1915, quando l’artista e l’attrice avevano più o meno la stessa età, intorno alla cinquantina.

 

Il risultato di quella telefonata è Camille Claudel 1915, in concorso alla Berlinale, e che potrebbe valere alla sua interprete un premio per la recitazione. Per lei Dumont “ha lo sguardo di Tarkovskij e di Dreyer, autori di cui ho grande nostalgia”. Mentre su Camille dice: “Tutti i libri su di lei parlano di questa assenza, della privazione della libertà, della famiglia, del dialogo, dell’arte… E’ la sua debolezza e la sua forza. Non ho cercato di interpretarla, ma di sentire tutto quello che lei sentiva. È stato duro ma in questo ho trovato anche una leggerezza che mi ha sorpreso, una sorta di felicità interiore che corrisponde bene alla storia di Camille e alla fine le muove un sorriso”.

 

Legata al collega Auguste Rodin, di cui fu allieva e musa, sorella di Paul Claudel, poeta e diplomatico convertitosi al cristianesimo, Camille venne fatta rinchiudere in manicomio da sua madre, che non le fece mai visita, dopo la morte del padre e il matrimonio di Rodin con Rose Beuret (la coppia Claudel-Rodin era stata portata al cinema nell’88 da Isabelle Adjani e Gérard Depardieu). Tormentata da manie di persecuzione, col costante timore di essere avvelenata, si sentiva derubata della sua arte dall’ex amante, era incapace di creare, provava orrore per ciò che la circondava. Rimase rinchiusa per 29 lunghi anni e morì in manicomio senza mai tornare a casa.

 

Furono anni di vuoto e di disperazione, che Dumont ha voluto filmare senza mezze misure, accostando alla Binoche degli autentici malati di demenza e autismo e delle vere infermiere. “Ho trovato uno psichiatra che lavora con l’arte-terapia e ha capito che integrare i suoi pazienti dentro un progetto di cinema poteva essere costruttivo anche per loro. Alcune di queste persone hanno potuto dare il proprio consenso, altri non erano in grado di farlo e sono state contattate le famiglie. Per comprendere la tragedia di Camille, bisogna vederla accanto a questi malati, che lei rifiuta e che la chiamano continuamente, che la sentono uguale a loro”.

 

Il film è costruito attorno all’attesa di una visita, quella di Paul (Jean-Luc Vincent), che si reca nel manicomio di Montdevergues per un breve incontro. La relazione tra i due è costruita in base alle loro lettere, mentre la storia clinica di Camille si basa su referti medici. Ma non c’è una vera e propria sceneggiatura. “Ho voluto che Juliette lavorasse a partire da se stessa, trovando anche tante affinità tra lei e Camille, del resto sono entrambe artiste”.

 

Dell’arte Dumont esplora in particolare l’aspetto delirante: “C’è un evidente rapporto tra l’arte e la follia, l’arte porta le facoltà umane a punto di rottura”, dice il regista. Ma si sofferma sulla differenza tra la donna e l’uomo nel vivere questo delirio: “Anche Paul è allucinato, perduto quanto lei, la sua unica protezione è Dio. Ma quello che in lui è stravaganza, in una donna, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, diventa devianza, insopportabile per la società e soprattutto per la madre di lei. Anche Rodin ebbe paura di Camille”. Per Binoche, Camille scontò il suo talento precoce, che a 17 anni ne faceva già una scultrice. “Fu vittima di questa ingiustizia di fronte alla società, alla famiglia, all’uomo che amò e odiò perdutamente. La sua follia mi faceva paura, ma ho voluto ugualmente guardarla in faccia”.

autore
12 Febbraio 2013

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