A lezione di tolleranza in una scuola media di Parigi. Con 24 ragazzini dagli 11 ai 15 anni provenienti da 22 paesi diversi. Una classe d’accoglienza, che consente ai giovani studenti appena arrivati in Francia di apprendere la lingua e affrontare le difficoltà di inserimento con il dovuto sostegno. C’è chi è scappato alla persecuzione antisemita, chi è arrivato con la famiglia in cerca di una vita migliore, chi per studiare violoncello al conservatorio, ma tutti sono spaesati se non spaventati e devono affrontare una situazione più grande di loro, spesso senza poter contare su genitori assenti o assorbiti dal lavoro. Eppure riescono a dialogare, a divertirsi, a creare una rete di solidarietà.
Accade nel documentario di Julie Bertuccelli, La cour de Babel che in Italia uscirà il 23 aprile, con il titolo SQuola di Babele, distribuito dalla Kitchen Film di Emanuela Piovano dopo l’anteprima al Festival romano Rendez-Vous Ed è qui che abbiamo incontrato la regista, già autrice di due apprezzati lungometraggi di finzione, Depuis qu’Otar est parti, premiato alla Semaine de la Critique e con il César per l’opera prima, e L’arbre, che ha chiuso il Festival di Cannes nel 2010.
Perché ha scelto proprio questa classe?
Questi ragazzi vengono da 22 paesi diversi, dal Senegal all’Irlanda del Nord, dalla Polonia alla Cina, hanno personalità forti e storie diverse, ci sono persone indigenti e rifugiati politici ma anche borghesi. Sono ragazzi eccezionali come anche la loro insegnante, Brigitte Cervoni, con la sua pedagogia di ascolto, fatta di rispetto e accoglienza. Quella classe per me è un microcosmo, uno specchio del mondo.
Sono adolescenti e non bambini. Come mai?
L’adolescenza è un’età di passaggio tra due mondi e loro hanno dovuto affrontare anche un altro viaggio, tra due culture, molto doloroso. Ogni adolescente vuole integrarsi, essere uguale agli altri, e invece questi ragazzi si sentivano ancor più diversi. Soprattutto si sentivano soli, ma hanno cominciato a conoscersi e scoprire che tutti vivevano la stessa solitudine e questo li ha uniti.
Il film non inizia col primo giorno di scuola ma coglie la classe nel mezzo dell’anno scolastico.
Le dinamiche diventano più interessanti quando gli allievi cominciano ad esprimersi in francese. Quasi tutti i minori che arrivano in Francia transitano per queste classi d’accoglienza per un anno. Piano piano, in base al loro livello, si integrano nelle classi normali per le varie materie pur continuando a frequentare la classe d’accoglienza per perfezionare il francese. Però via via che migliorano l’accento si integrano meglio.
La scena più importante del film è quella in cui i ragazzi si confrontano sul tema della religione dimostrando una tolleranza e un’apertura molto superiore a quella degli adulti in tempi di radicalizzazione del conflitto.
È una scena che si è svolta in modo spontaneo. C’era un’etnologa in classe per aiutare i ragazzi a parlare delle differenze e aveva chiesto loro di portare un oggetto che li rappresentasse. Alcuni di loro hanno portato la Bibbia o il Corano o il velo. Questi oggetti hanno prodotto una tensione, come avviene nella società, ma l’insegnante ha dato la parola a tutti, ricordando che la scuola repubblicana è una scuola laica. Grazie a questo gli allievi hanno potuto tutti parlare del loro Dio. È stato bello vedere la piccola Djenabou, che considera Dio il suo migliore amico, esprimere addirittura un dubbio sulla sua esistenza. E alla fine i ragazzi si sono trovati d’accordo sul fatto che il mondo è un insieme di domande.
Come ha fatto a far dimenticare la presenza della videocamera?
Nessuno può riuscire a dimenticarla, però vivendo tutto l’anno insieme a loro, si sono abituati a me e al tecnico del suono, erano contenti quando andavamo a trovarli. Io non li ho mai forzati a fare qualcosa, non ho mai fatto richieste, ho rispettavo i loro ritmi. Per me il documentario deve seguire il ritmo delle cose, ma per questo ci vuole tempo, non si può fare in tre settimane. La professoressa mi ha detto che la mia presenza non ha cambiato niente nel loro comportamento. Certo, non è il mio sguardo non è neutro, non potrebbe, ma quello che vediamo si avvicina molto alla realtà.
Il suo film è stato paragonato a La classe di Laurent Cantet. Per il ‘New York Times’ ne è il controcanto realistico.
Sì, può ricordarlo ma è molto diverso, innanzitutto perché La classe è un film di finzione, anche se si ispira alla vita reale. Non ho lo stesso sguardo di Cantet, credo di essere quasi all’opposto. Poi, è vero che in Francia si fanno molti film sulla scuola, da Jean Vigo a Nicolas Philibert. La scuola è centrale nella nostra vita, è il luogo dell’infanzia, dove tutto è possibile, ognuno di noi ha dei ricordi molto intimi legati al tempo scolastico. A scuola si costruisce il mondo ed è sempre interessante osservarla perché è il riflesso della società.
La Francia è un paese razzista, oggi più di ieri?
Certo, come l’Italia, è un paese razzista. Magari è un razzismo velato, coperto dall’ipocrisia. Non dimentichiamo che in Francia c’è Marine Le Pen. Il razzismo fa leva sulla stupidità e sulla paura. Abbiamo mostrato il film in molte scuole, credo che combatta contro i pregiudizi perché fa capire che gli immigrati portano una grande ricchezza culturale e la cultura europea è il prodotto della mescolanza. È duro lottare contro il razzismo che oggi si mescola alla crisi, alla paura del terrorismo e alla ricerca del capro espiatorio. Molti studenti, dopo la proiezione mi hanno detto: “Questi ragazzi sono degli eroi, li abbiamo presi in giro ma ora ci siamo resi conto che soffrono e che hanno delle grandi responsabilità sulla proprie spalle. Io non faccio film politici, ma spero che comunque aiutino a cambiare le cose, magari a piccoli passi.
Il tema dell’immigrazione ha radici personali per lei, figlia di emigranti.
Ho origini italiane, belghe e russe e ne sono fiera. Tutti noi siamo fatti di mondo. Mio nonno paterno veniva da Firenze ma non aveva insegnato l’italiano a suo figlio, cioè mio padre, perché allora gli emigranti volevano nascondere le proprie origini. Mia madre poi è stata dieci anni con un altro italiano, un napoletano, ed è grazie a lui, e non a mio padre, che ho imparato a capire l’italiano. Non bisognerebbe mai perdere la lingua materna che è la propria identità.
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