La storia dell’angolo meridionale di un luogo, il Brasile, per Casa de antiguidades (selezionato al Next Step Lab della Semaine de la Critique di Cannes e parte della Selezione Ufficiale 2020): non solo un posto fisico, ma uno spazio dell’anima e della cultura.
Un uomo di colore, Cristovam – l’attore Antonio Pitanga – si trasferisce nell’area più conservatrice e benestante del Paese sudamericano, una ex colonia austriaca, e lì “incontra” una casa – con lui, la protagonista del film: “lei” è abbandonata, lui decide di prendersene cura, metafora del prendersi cura anche di sé, della propria solitudine acuita dalla xenofobia umana circostante, metaforicamente anche dosando esteticamente il contrasto tra i colori asettici e igienici della fabbrica di latte “europea” in cui lavora l’uomo – bianco ottico e grigio metallo, principalmente – e quelli più multicromatici e vibranti dell’ambiente naturale e della casa.
João Paulo Miranda Maria, esordisce (nel lungometraggio) con un’opera che si radica nella tradizione folkloristica brasiliana – il film è co-prodotto con la Francia – riuscendo, con l’alchimia propria di quel territorio, ma anche l’essenza cruda delle dinamiche sociali, a fare una lucida lettura del presente. “La mia ispirazione viene dal cinema brasiliano in generale, dai film d’avanguardia degli Anni ’20, ma anche dai documentaristi: è sempre stato molto importante, per me, pensare a un cinema diverso; faccio sempre riferimento alla Storia dei grandi autori brasiliani, mi piace ‘dialogare’ con loro, e la presenza di Antonio Pitanga si collega a questo discorso. Pitanga, nel film, rappresenta il vecchio, l’assunzione della responsabilità del passato nel momento della sfida: il film lavora con vari generi, ho sempre percepito una specie di saudade per un cinema Anni ’60-’70, quello d’autore, che ho voluto inserire, come possibilità di dialogo con grandi cineasti della Storia del Cinema, non una scelta fatta ‘per moda’, ma per conversare con questi grandi nomi, e per provocare, infatti, come Antonioni, Pasolini, voglio fare qualcosa che sia scomodo, per poter trasformare”, spiega il regista.
“La mia idea è sempre stata di creare una metafora del Brasile odierno: esiste davvero quella Regione, quella colonia austriaca, fondata da persone fuggite della Seconda Guerra Mondiale, molti di loro nazisti – la casa è stata costruita da un ex poliziotto nazista -, questo permette, nel film, di definire questo movimento fascista; abbiamo solo inserito la bandiera, realizzata da partecipanti veri del Movimento Separatista del Sud, ho coinvolto così le persone vere della Regione, tutto questo mi ha permesso di farmi sentire ‘collegato’ al racconto”, continua Miranda Maria, di certo consapevole dalla contemporaneità politica e sociale del suo Paese, su cui riflette, anche rispetto all’opera e alla cultura in generale.
“Gli artisti, l’arte, il cinema, hanno bisogno di militanti, non c’è arte senza Resistenza: in questo film inserisco conflitti e questioni che non vengono prese in considerazione dalla politica del giorno d’oggi; s’immagina che il film abbia luogo anche in altri tempi, come la dittatura degli Anni ’70, un po’ simile al tempo creato adesso da Bolsonaro in Brasile. Il film parla di un tempo in cui il futuro è legato al passato, fa riferimento quindi a qualcosa per cui la gente si sente a disagio: le persone hanno eletto democraticamente Bolsonaro, sapendo chi fosse, molti lo sostengono ancora, nonostante le atrocità; è necessario formare una Resistenza per lottare contro di lui in modo molto profondo. La perdita della memoria di una cultura è un pericolo, che esiste: questo film mostra la situazione attuale; adesso, per esempio, è complicatissima, anche la cinematografia brasiliana è bloccata, quindi c’è un blocco dello sviluppo della cultura, e siamo chiusi dal governo di Bolsonaro, ci stiamo affacciando allo spegnimento della cultura brasiliana. Nel film c’è una presenza quasi invisibile della cultura popolare: Cristovam rappresenta una sorta di collettivo culturale, quindi è un segno molto forte della memoria”.
Un tema complesso che l’autore molto affida alla recitazione intensa, e quasi completamente silenziosa, quindi affrancata allo sguardo e alla mimica dell’ottantunenne Pitanga, che “fin dall’inizio, quando ho iniziato a scrivere il film nel 2015, non conoscevo ma ho sempre pensato come protagonista: è stato interprete nell’unico film brasiliano che – nel ’62, La parola data (O pagador de promessas) di Anselmo Duarte – ha vinto la Palma d’Oro, ha lavorato molto con i rappresentanti del Cinema Novo, lui è il corpus del cinema brasiliano. Non volevo descrivere il suo essere nero, ma usare lui come rappresentante di una generazione: porta con sé quello che riguarda la parte interiore del film, è fondamentale la storia che lui incarna, e per me è stata una sfida, considerata la sua grande carriera. Lui si è assolutamente immerso, anche nel recitare con il silenzio, un rischio che io ho voluto assumermi”.
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