Jean-Pierre Jeunet: ho visto sei volte “La grande bellezza”

Jean-Pierre Jeunet è al Festival di Roma per presentare il film 'Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet', evento in collaborazione con Alice nella città.


Il film, tratto dal libro illustrato The Selected Works of T.S. Spivet, di Reif Larsen, è stato mostrato in mattinata a un’entusiasta platea di bambini, mentre nel pomeriggio il regista terrà una masterclass aperta al pubblico. La storia è quella di un piccolo genio inventore, con un grande cervello e una storia familiare problematica. Cresciuto nel Montana, T.S. Spivet ha 10 anni, una mamma e un papà in costante conflitto – lui cowboy duro e puro, lei (Helena Bonham Carter) con aspirazioni da entomologa – una sorella frustrata dalla vita di provincia e un evento traumatico alle spalle. Un giorno gli arriva una telefonata: gli annunciano che la sua ultima invenzione riceverà un premio prestigioso. Il bambino fugge così di casa, sale clandestinamente su un treno e intraprende un’avventura meravigliosa e difficile, che lo cambierà per sempre. Lo vedremo dal 28 maggio, distribuito dalla IIF di Fulvio Lucisano. Per Jeunet si tratta della prima volta in 3D.

“Quando ero piccolo – dice il regista – avevo uno stereoscopio, un giocattolo chiamato ‘view master’ che mi affascinava tantissimo, così come mi sono sempre piaciuti i libri con le figure ‘pop up’, che escono fuori dalla pagina, e poi i vetrini in 3D con immagini della Prima Guerra Mondiale. Tanto che quando abbiamo realizzato un libro sul film Una lunga domenica di passioni lo abbiamo corredato di 80 immagini in tre dimensioni. Quando ho letto il romanzo su Spivet ho subito capito che era un’occasione eccellente di farne un film in 3D perché il 3D era già parte della sua narrazione. Ho lavorato tantissimo con lo stereografo, che aveva realizzato Hugo Cabret. Innanzitutto non si tratta di una conversione ma abbiamo girato in vero 3D con le macchine usate da James Cameron per Avatar. Poi in post-produzione abbiamo corretto tutto ciò che era necessario per evitare che agli spettatori scoppiasse il mal di testa. Ho studiato parecchio per capire cosa andasse e cosa no. Abbiamo usato l’aspetto spettacolare della tecnica per avvicinare gli oggetti allo spettatore e renderlo parte della storia.

A parte il 3D, cosa l’ha colpita di questo progetto?

Le emozioni, dato che fin troppo spesso mi hanno accusato di non saperne trasmettere. Mi sono detto, stavolta sarà diverso. E poi la possibilità di lavorare nel Montana e riprendere la bellissima natura americana. C’è stato un gran lavoro di adattamento, il libro era molto denso, pieno di idee, e il paradosso è alcune ricordavano molto da vicino Il favoloso mondo di Amèlie. Quando ho conosciuto Larsen mi è parso di incontrare un figlio spirituale, una sorta di me stesso con trent’anni di differenza. Pensi che mi ha regalato un libro fotografico che io stesso avevo appena regalato a dei miei amici.

Lei ha lavorato tanto in Europa ma anche in America, quando ha fatto Alien: La clonazione.

Ci racconti le diversità tra le due esperienze… Intanto c’è da distinguere tra cinema americano indipendente e cinema realizzato dagli Studios. Io ho conosciuto quest’ultima forma, come ricorda lei, con Alien, e devo dire che ho avuto il 95% di libertà. Oggi non sarebbe più possibile. Tanto che per evitare gli studios ho fatto un ‘falso film americano’. T.S. Spivet è in realtà un film francese e canadese, tutti gli attori, a parte il piccolo protagonista Kyle Catlett, sono inglesi, australiani e canadesi. Questo significa che ho potuto mantenere il final cut. Sfortunatamente, degli americani non ti liberi mai. Il film è stato acquistato per la distribuzione da Harvey Weinstein che lo vorrebbe rimontare a modo suo, io ovviamente non sono d’accordo, avendo il final cut, quindi è guerra. La stessa cosa aveva voluto fare con Delicatessen tanto che io e Marc Caro, che era sceneggiatore e co-regista, gli dicemmo: “Senti, abbiamo la soluzione. Togli i nostri nomi dai titoli di coda e stiamo a posto”. E la storia si è ripetuta con Amèlie, che infatti grazie all’intervento suo e della Miramax, poco raccomandabile, è stato boicottato e non ha vinto l’Oscar. Oggi il risultato di questa politica è che T.S. Spivet, mio unico film americano, non sarà distribuito in America ed esce comunque con un anno di ritardo, dato che questi signori lo hanno bloccato. E’ molto triste. Dovevo andare a una cerimonia di premiazione a Zurigo e Weinstein me lo ha impedito. Ci è andato al posto mio.

T.S. Spivet fugge dalla provincia americana. Eppure nel film traspare una certa fascinazione per quei luoghi… 

Penso che tutti gli europei provino fascinazione per l’America: filmare i ranch, le praterie, i cavalli, i grandi spazi, è stato un grande piacere. Ma ha ragione nel rilevare questa ambiguità. Noi lavoravamo nel Montana canadese, appena dopo il confine, vedevamo i rodeo e tutto ma avevamo a che fare con dei veri ‘redneck’, dei contadini non proprio istruiti. Ci dicevano “non starete mica facendo un altro film di froci come Brokeback Mountain”…

Come Spivet, anche lei è un sognatore?

La mia felicità deriva dal fare. Spivet realizza invenzioni scientifiche, io racconto storie ma è pur vero che nel cinema la tecnica è molto importante. Mi faccio gli story-board da solo e ho proprio piacere nel lavorare. Mi sento come una specie di chef che poi ama condividere con gli altri il piatto che ha preparato. A volte succede che il piatto di cui sei fiero non piaccia come speravi, ma ciò nulla toglie al piacere di prepararli. Renoir diceva: “faccio film per la gioia di farli, il resto riguarda gli altri”. E poi come Spivet spesso vado a ritirare premi, in aereo magari, e non in treno. Ma come lui mi trovo davanti un sacco di giornalisti a cui parlare ma mentre lo faccio, sinceramente, non vedo l’ora di tornarmene a casa e ricominciare a lavorare.

La comprendiamo. La prova del piccolo Catlett è veramente sorprendente. E’ stato difficile lavorare con un bambino come protagonista?

Un film con un bambino protagonista è sempre difficile. I direttori del casting ne hanno incontrati 3.000 tra Ottawa, Londra, Vancouver, Los Angeles e Montreal e io iniziavo a disperare, ma poi su Skype vedo questo ragazzino piccolissimo, era alto un metro e venti e lo è tuttora, non cresce. Era troppo giovane, aveva 9 anni mentre Spivet ne ha 12. Ma mi dice che alla sua età è campione di arti marziali della sua fascia, che parla cinese, russo e spagnolo e che è in grado di piangere a comando, cosa che mi dimostra immediatamente di saper fare. Ho capito che era un tipo speciale, e in effetti durante la lavorazione non ha mai mostrato per un attimo debolezza o fatica. E non è stata una situazione facile. Dovete sapere che il suo agente ci aveva mentito, e aveva firmato per una serie televisiva, The Followers, prodotta da Kevin Williamson, che sarebbe stata girata in contemporanea col nostro film. Erano americani e dunque avevano la precedenza. Abbiamo chiesto aiuto alla produzione, la Warner, chiedendo di mandarci la loro schedule. Per tutta risposta abbiamo ricevuto una mail per niente conciliante: “non ci interessa niente, non avrete mai il bambino, non contate niente, siete morti”. Da lì è iniziato l’incubo: dovevamo necessariamente usare degli espedienti. Abbiamo girato nei fine settimana o usando delle comparse. Addirittura c’è una scena in cui Spivet piega delle lenzuola con sua madre nella stalla per cui abbiamo dovuto usare il green screen e montare in seguito le azioni dei due attori. Penso che alla fine non si noti, e questo grazie anche al coraggio del piccolo interprete che non solo era sempre entusiasta e disponibile ma ha voluto realizzare da solo anche le scene pericolose. E’ un bambino molto attivo e ‘fisico’.

Lei non è un autore troppo prolifico. Perché? Non trova i fondi o è una scelta personale?

Più che altro, sono io che ci metto molto a trovare i soggetti giusti e poi me li scrivo da solo, anche se aiutato da altri, quindi in pratica faccio due mestieri. I miei film poi sono complicati, lunghi nella preparazione, nella realizzazione a anche nella post-produzione. Ma il mestiere mi piace talmente tanto che per me non rappresenta un problema. Ci posso mettere anche tutta la vita a realizzare un film. Certo, dati i miei tempi, se sono fortunato riesco farne un altro paio…

Torniamo a Spivet. La sua è una famiglia divisa tra intelletto e manualità. Per essere felici bisogna saperli applicare entrambi?

Il pittore Jean Renoir diceva che bisogna diffidare di qualsiasi mestiere che non si faccia con le mani. Ho risposto alla sua domanda?

Chiudiamo in fantasia. Arriva il Dottor Emmet Brown di Ritorno al Futuro con la sua DeLorean e le dice che deve tornare indietro nel tempo per girare un grande film del passato. Quale sceglie?

Che buffo, pensavo ai viaggi nel tempo proprio sull’aereo che mi portava qui. Non lo so se ci sono film del passato che avrei voluto girare. I film importanti per me raccontano un momento della mia vita. Però se ne devo scegliere uno, e non per piaggeria, è un film italiano: C’era una volta il West. L’ho visto a 17 anni in vacanza e non ho parlato per i tre gironi successivi, tanto mi ha shockato. I miei genitori erano preoccupati. Mi dicevano “ma stai male?”. E io: “non potete capire”.  Era una rivelazione per me: cinema ludico con una colonna sonora incredibile e quegli effetti di primi piani sugli occhi, mi ha influenzato tantissimo, io cerco di fare altrettanto. E quando finii lo storyboard di Delicatessen ero in barca con Marc Caro e ci arrivò la notizia delle morte di Leone. Per me fu un segno. Come se dovessimo raccoglierne il testimone. Comunque, riguardo una volta l’anno anche La Dolce Vita e ho visto sei volte La Grande Bellezza.

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