Presentato in concorso alla 19ma edizione della Festa del cinema di Roma, Jazzy vede il ritorno di Lily Gladstone (premio Oscar per The killers of the flower moon) in un film di Morrisa Maltz – ha già recitato nel road movie The unknown country – ma questa volta nel doppio ruolo di produttrice e interprete. Dopo un racconto sul lutto, ripreso quasi come un documentario, Maltz arriva al Festival della Capitale con una storia interamente dedicata a Jasmine “Jazzy” Shangreaux, figlioccia del regista, ora al centro di un’opera tutta sua. Come The unknown country, la cifra della regista si compone ancora attorno ai protagonisti, il cui mondo interiore guida una lunga contemplazione a tratti poetica. Seguiamo così le vite di Jazzy e della sua migliore amica, Syriah Fool Head Means, osservate lungo un arco di sei anni, ampio spazio narrativo inserito in appena 80 minuti di pellicola. Centrali sono i momenti quotidiani, dove la vita si esprime per routine e sorprese, incontri e scambi; una poesia dell’essere al mondo che avvicina il film di Maltz, almeno per poetica, al cinema asiatico. C’è spazio per ridere e divertirsi coi molti incontri affrontati dalle protagoniste, dai maschi – le differenze tra i generi si ritagliano uno spazio importante nel racconto – agli adulti, tutti ribaltati e osservati dagli occhi di Jazzy e Syriah, che attraversano il mondo passandone in rassegna ogni dettaglio, ma senza risultare mai moraliste. Allo stesso tempo, Maltz sembra fare un passo indietro rispetto all’oggetto della propria indagine, riducendo al minimo il giudizio.
Il rapporto tra Jazzy e Syriah affronta anche momenti difficili, rievocando il dramma, da tutti almeno una volta vissuto, della rottura di un’amicizia. Solo sul finale scopriamo il perché dell’improvviso allontanamento di Syriah, momento di rivelazione che restituisce al film un valore quasi pedagogico, come a voler mostrare le infinite pieghe dentro cui si perdono i rapporti umani. Un piccolo compendio sull’amicizia, ma senza velleità moralistiche o intenti d’autore distanti dal pubblico. È facile riconoscersi in questa delicata storia amicale. Maltz non si abbandona però ai precetti del coming of age all’americana, intessendo più generi nella sceneggiatura e restituendo rapporti credibili, genuini, capaci di suscitare un sincero interesse. Calati nei panni di questa giovane, attraversiamo una piccola cittadina del South Dakota, scoprendone solitudini e meraviglie, personaggi grotteschi e indimenticabili. C’è la quotidianità della scuola, delle feste di compleanno, delle amiche e dei ragazzi, ma anche l’universo interiore fatto di un mare di sentimenti in burrasca, in movimento incessante nel corso di sei lunghi anni in cui tutto cambia.
Gli adulti, tanto chiacchierati dalle due protagoniste, ricordano le rappresentazioni che negli anni ne hanno proposto i cartoon televisivi, dove i più grandi sono solo due lunghe gambe senza testa, esseri fuori campo. Solo alla fine, in una scena che vede anche il ritorno di Lily Gladstone, li vediamo inquadrati per la prima volta, segno di un percorso compiuto dalle due protagoniste. Il cast di bambini brilla ed è pressoché perfetto, soprattutto considerato che la maggior parte degli interpreti sono non professionisti; scelta già compiuta da Maltz in The unknown country, di cui questo film è forse il naturale e inevitabile prosieguo.
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