TORINO – “La politica in questo paese, credetemi, è sul punto di diventare un’altra forma di competizione atletica o di gara sportiva”. Frase profetica, pronunciata dal senatore democratico Gary Hart nel suo splendido discorso di addio. Candidato alla presidenza degli Stati Uniti nel 1988 e super favorito della vigilia, venne travolto in poche settimane da uno scandalo sessuale senza precedenti: aveva tradito la moglie, con cui peraltro viveva più o meno da separato in casa, con la giovane modella Donna Rice, incontrata a un party su uno yacht dal nome paradossale, Monkey Business. Due giornalisti di provincia l’avevano pedinato appostandosi davanti a casa sua a Washington, dopo la soffiata di un’amica dell’amante. Quindi saltarono fuori alcune foto che provavano un adulterio precedente…
Quella vicenda, che Jason Reitman esplora nel film che ha inaugurato il 36° Torino Film Festival, The Front Runner Il vizio del potere, rappresenta uno spartiacque nella storia della politica e del giornalismo. Si sgretola la distinzione tra pubblico e privato, tra politica e celebrità, tra inchiesta e gossip. Se Hart non fosse caduto sotto i colpi di uno scoop messo in piedi da due giornalisti pasticcioni a cui anche i quotidiani più prestigiosi, come il Washington Post, andarono dietro, la storia degli Stati Uniti sarebbe stata diversa, George Bush sr non sarebbe stato eletto e forse neppure Donald Trump. E’ con questa amara consapevolezza che il regista di Thank You for Smoking, Juno e Tra le nuvole, ha portato sullo schermo il libro All the Truth Is Out: The Week Politics Went Tabloid di Matt Bai, anche co-sceneggiatore insieme a Reitman e Jay Carson. “In quegli anni – ha spiegato Reitman – andava in onda ‘A Current Affair’, il primo show di gossip, si cominciavano ad usare i camion con i satelliti e la Cnn cominciava a dare ai reporter i telefoni cellulari, oggi come allora siamo ancora qui a chiederci cosa è giusto pubblicare e cosa no”. Interpretato da un magnetico Hugh Jackman, affiancato da Vera Farmiga, .J. K. Simmons e Alfred Molina, The Front Runner è un film a più strati che parla di politica, di media e anche della complessità delle relazioni tra i due sessi in un’epoca, gli anni ’80, in cui il #MeToo era ancora di là da venire. Sarà in sala con Warner Bros dal 21 febbraio, mentre negli Usa è in uscita in questi giorni.
Il suo film tocca tutti i temi più scottanti e inquietanti della politica contemporanea in un momento chiave, un momento in cui la politica spettacolo prende il sopravvento sulle questioni serie: il clima, i diritti, il lavoro.
Mentre scrivevo il film, insieme al corrispondente del New York Time Magazine Matt Bai, un giornalista che ha coperto cinque elezioni presidenziali oltre che autore del libro sul caso Hart, e con Jay Carson, che è stato tra le altre cose addetto stampa di Hlilary Clinton, continuavano ad accadere cose. In quel momento era presidente Obama, poi ci sono state le elezioni presidenziali, e il #MeToo è nato proprio mentre stavamo girando. Questo film è un oggetto cangiante che riflette anche i cambiamenti della società americana: abbiamo avuto le elezioni di metà mandato, altri scandali e allontanamenti di persone scomode. Pensavamo che fosse una vicenda paradossale, ma non è più così.
Come si può tornare, se è mai possibile, a una politica avulsa dal gossip e fondata sul dibattito delle idee?
Negli Stati Uniti viviamo ormai di estremizzazioni, la sinistra tende a essere cannibalizzata a sinistra e così anche la destra. La Casa Bianca tratta ormai i giornalisti come nemici di Stato. Ogni mattina vediamo pubblicate notizie serie e gossip che assumono la stessa rilevanza sui siti. E’ difficile capire cosa sia spettacolo e cosa giornalismo. E sono ormai gli stessi lettori a chiedere tutto questo. Anch’io sono un essere umano e amo il gossip come chiunque altro, ma allo stesso tempo ho una scala di valori e cerco di conservarla.
Perché il caso di Gary Hart è così paradigmatico?
Oggi negli Usa abbiamo il presidente più indecente che si possa immaginare, ogni ora varca qualche confine ed è impossibile stabilire una linea di demarcazione. Con Gary Hart la storia americana avrebbe potuto essere diversa. Aveva tutte le carte in regola, era un candidato carismatico, dotato di intelligenza fine e brillante, addirittura preveggente. Per esempio negli anni ’80 invocava la necessità di smettere di dipendere dal Medio Oriente per il petrolio, voleva l’insegnamento dell’informatica nelle scuole… Certo, era un essere umano e ha commesso degli errori, ma in che modo questi errori privati sono diventati così importanti? Dov’è il confine tra vita pubblica e vita privata? Oggi è quasi impossibile segnarlo.
In Italia abbiamo avuto un premier come Silvio Berlusconi che ha destato molto interesse e anche scandalo attorno ai suoi comportamenti privati ma questo non ha messo a repentaglio la sua posizione di potere. Non in modo decisivo, almeno.
Abbiamo letto anche in America delle feste di Berlusconi con giovani donne. Il suo caso è simile a quello di Trump: si fatica a districare la matassa tra interessi privati e funzione pubblica.
È possibile fare un passo indietro?
Forse bisognerebbe rimettere una netta distinzione tra pubblico e privato. I comportamenti privati non devono impedire a un uomo di governare un paese. In un certo senso Gary Hart è stato il Nostradamus della politica americana quando ha detto, nel suo discorso di addio, “tremo al pensiero che questo paese un giorno possa avere il presidente che si merita”. O quando ha avvertito Bush di monitorare le scuole di volo perché l’America rischiava un attacco aereo. Se Hillary Clinton fosse diventata presidente quel discorso sarebbe oggi paradossale. E poi questa domanda ha a che fare con la tecnologia. Perché gli elettori si muovono in un certo modo? Come leggiamo e guardiamo le notizie?
I personaggi femminili del film sono scritti con molta sottigliezza, anche quello di Donna Rice, che fu vittima di un affare molto più grande di lei e che oggi sostiene i repubblicani, forse con un sentimento di rivalsa.
Quando dicevo che volevo fare un film su Gary Hart, la prima reazione di chiunque era citare Monkey Business, la barca su cui si sono conosciuti Hart e Donna Rice, tra l’altro Monkey Business è un’espressione che significa “affari sporchi”… La seconda domanda che mi facevano era “come si chiamava la bionda?” Di Donna Rice si parla come di un oggetto e non come di un essere umano. Nel film invece tutte le donne sono esseri umani: Donna, la moglie di Hart, la figlia, l’esperta di comunicazione dello staff. Uno scandalo di quella portata sulle spalle di una donna è molto più pesante e qui entra il discorso di genere, che mi sta a cuore. Lavoro da anni con la stessa produttrice, Helen Estabrook, lo scambio tra noi mi ha permesso di capire tante cose. Com’è essere donna nella redazione di un giornale? Com’è essere donna nel comitato elettorale e dover riportare a casa Donna Rice dopo lo scoppio dello scandalo? La giovane vita di questa donna è stata lacerata in un momento in cui non c’era nessuna regola su come comportarsi. Sia lei che Gary Hart erano due persone riservate e animate da sentimenti religiosi. Donna si è trovata in una tempesta in cui ha rischiato di annegare. È stata fatta uscire di scena. Abbiamo idee politiche diverse ma la rispetto completamente.
Come ha scelto Hugh Jackman per il ruolo di Gary Hart?
Ho subito pensato a lui, era perfetto al di là di una certa somiglianza fisica. L’avevo ammirato molto nel corso della sua carriera perché è un attore dotato di etica professionale spiccata e onestà interiore che emerge in tutti i suoi lavori. In questo caso riesce ad afferrare lo spettatore e portarlo con sé dentro al film e poi mantiene qualcosa di enigmatico, di ambiguo.
Gary Hart ha visto il film?
Sì, l’ha visto, come pure Donna Rice e tutti i membri del comitato elettorale, ho contattato tutti loro prima delle riprese e poi li ho invitati a una proiezione. Ho cercato di essere rispettoso. Quando Hart ha visto The Front Runner ha chiesto alla moglie se lui parlava davvero così e lei gli ha risposto: “Sì, tesoro”.
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