VENEZIA – Una svolta nella carriera di Jane Campion, che si concentra per la prima volta sui personaggi maschili e analizza le radici del machismo in The Power of the Dog, in concorso a Venezia 78. Con questo film sorprendente a appassionante l’autrice neozelandese torna al grande schermo (l’ultimo film, Bright Star, risale a 12 anni fa). Affascinata dal romanzo di Thomas Savage (1967) che descrive come “pura gioia”, ha deciso di darne una versione cinematografica usando alcuni elementi del western e altri insiti nella sua cifra autoriale, da sempre attenta agli spostamenti del desiderio, alle leggi dell’attrazione e della repulsione. “Dapprima non avevo pensato di farne un film – racconta – visti i tanti personaggi maschili e i temi profondamente legati alla virilità. Mi sono invece chiesta quale regista sarebbe piaciuto allo scrittore, con la sua mascolinità ambigua, e a poco a poco ho avuto la sensazione che lui mi appoggiasse un braccio sulla spalla, dicendomi: ‘Una pazza che è arrivata ad amare questa storia è perfetta’. Ho messo tutta me stessa nel grandioso racconto di Savage. In Phil ho sentito l’amore e la tremenda solitudine. Ho percepito l’importanza e la forza di ogni personaggio e il modo in cui ciascuno si rivela alla fine. Sono una persona creativa, non ho calcolato le percentuali di genere. Ho pensato che il libro fosse bellissimo, ha avuto un effetto fortissimo su di me: ho viaggiato nell’ultima parte, è stato emozionante. Non sono riuscita a dimenticarlo, lavora sulla psiche, sicché lentamente ho mosso i primi passi verso la creazione del film. E l’abbiamo fatto'”.
L’ambiguità la fa da padrona in questa storia di omosessualità repressa ambientata nel Montana – ricostruito in Nuova Zelanda – del 1925. Phil Burbank è un allevatore molto ricco e un maschio tutto d’un pezzo. Maltratta il fratello George, uomo delicato e abitudinario, con cui divide la stanza come se fossero ancora adolescenti. Se la prende con chiunque attraversi la sua strada, non lesinando prese in giro e insulti a chi percepisce come debole o effemminato. Ma un giorno George si presenta nel ranch di famiglia con una vedova che è diventata sua moglie e con il figlio di lei, adolescente tormentato e sessualmente in cerca di identità.
Interpretato da Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons e Kodi Smit-McPhee, il film ci mostra le dinamiche tra i vari personaggi, i giochi di potere, ma anche le triangolazioni di amore e seduzione. Un movimento in cui la musica gioca un ruolo importante, e non manca un pianoforte, come nel capolavoro Lezioni di piano, Palma d’oro a Cannes, ma c’è anche un banjo. L’autrice si sofferma sulla colonna sonora di Jonny Greenwood dei Radiohead, che assurge a una centralità totale, esplorata in ogni direzione: ”Il suo entusiasmo è travolgente, la sua musica ti porta in alto, come nei momenti indimenticabili della vita”.
In merito al maschilismo tossico del suo personaggio, Phil, Cumberbatch dice: ”E’ il risultato di come è cresciuto, lo capisco, non giudico né condivido, ma lo capisco. Che non abbia redenzione fa parte di quel che è, è la sua tragedia personale: sta sulla difensiva, è solo, oppresso, non ho mai pensato che ci sia autenticità nella sua vita. Il maschilismo tossico lo riconosci, persone danneggiate danneggiano gli altri, anche i politici lo fanno: ognuno deve affrontare i propri problemi, non rinchiudere il mostro e buttare via la chiave”. Aggiunge Kirsten Dunst, che ha il ruolo di una donna fragile e ferita, che nasconde il suo essere alcolizzata: ”Ho creato i miei demoni, la mia Rose rappresenta tutto il dolore che anche Phil ha dentro”. E sulla regista: ”C’è in Jane qualcosa di sensuale, che si trova nei suoi film. La sensibilità, la profondità del suo lavoro, i suoi personaggi femminili sono uniche”. Di Rose parla la stessa Campion: ”Rose mi interessava molto come donna, sicché ho amplificato il ruolo rispetto al libro. E’ una donna del 1925, priva di fiducia in sé con sentimenti di vergogna che affoga nell’alcool: Savage ha sviluppato con intelligenza il tema dell’isolamento”.
Cumberbatch aggiunge che Phil è “un personaggio molto complesso, ma non è semplicemente il cattivo della storia, queste sono semplificazioni, è una figura poetica complessa. Sono felice di tornare a fare parti cattivo, questa è stata un’esperienza immersiva: Jane ti permette di esprimerti con libertà nel perimetro del suo gusto”. Campion spiega che ‘trovare il Montana del 1925 sarebbe stato più difficile nel Montana attuale che in Nuova Zelanda’, dove hanno girato in ”uno spazio vuoto, come fossimo in una barca sull’oceano” e dove hanno trovato il massiccio montuoso che ricorda nel profilo un cane che abbaia.
Inevitabile una domanda sulla questione di genere. ”Le donne registe si stanno comportando molto bene, basti pensare a Chloé Zhao che ha vinto a Venezia 2020 il Leone d’oro e poi l’Oscar. Se ne ha la possibilità, non c’è niente che fermi una donna, ma le statistiche non sono a nostro favore, non ci sono abbastanza voci femminili nella narrazione. Però il #MeToo ha fatto cadere il muro di Berlino , ha rappresentato la fine dell’Apartheid femminile”.
Infine sul suo rapporto con le piattaforme, dopo la serie Top of the Lake (2013-2017) (“mi è piaciuto lavorarci perché mi piace creare un mondo e svilupparlo”, rivela), l’esperienza di The Power of the Dog è stata possibile grazie a Netflix: “Mi ha permesso di scegliere che produzione fare, con grandi mezzi a disposizione, dunque sono tornata alla mia libertà espressiva nel cinema”.
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