Jacques Audiard: una famiglia virtuale per sfuggire alla guerra

CANNES – In fuga dalla guerra civile in Sri Lanka, un soldato, una ragazza e una bambina si fanno passare per una famiglia e riescono a rifugiarsi in Francia


Finiscono in una cittadina di provincia con una grande concentrazione di criminalità. Si conoscono appena, e l’ambiente è ostile. La tensione cresce fino a conseguenze drammatiche. Questo il plot del bel film di Jacques Audiard, Dheepan, adattamento molto libero delle ‘Lettere persiane’ di Montesquieu. Audiard ama lanciare volti nuovi e sconosciuti, come fece con Tahar Rahim ne Il profeta. Qui sono quellli intensi di Antonythasan Jesuthasan (attore non professionista, ma vero ex soldato, e anche scrittore, che ha dichiarato che il 50% del film può definirsi ispirato alla sua biografia) e Kalieaswari Srinivasan a incarnare le angosce di due vite sofferte.

Nel suo ultimo film, invece, c’era Marion Cotillard…

Non avevo intenzione di mettere una pellicola contro l’altra, chiaramente. E’ un progetto che avevo in mente addirittura da quando avevo finito il film precedente, Il profeta, e poi si è concretizzato. L’idea iniziale era di fare una storia d’amore.

Che però si mescola con il noir…

Sì, sembra un genere ma ne include altri. Molto velocemente si sono incontrati questi elementi attorno alla storia della coppia. Non è il classico film d’amore francese, gli attori sono stranieri, era giusto fare qualcosa di diverso…

Come ha scelto questi ottimi attori?

Prima di iniziare il progetto a malapena sapevo dove fosse lo Sri Lanka, ma il direttore del casting ha fatto un ottimo lavoro molto veloce, Antony d’altro canto vive a Parigi. Non ho visto duecento persone, ho avuto solo una breve esitazione sul ruolo maschile ma si è tutto risolto piuttosto rapidamente.

Questa famiglia artificiale lascia una situazione di violenza di guerra per trovarsi nella guerra di gang delle Banlieues. Dalla padella alla brace. Ma lei ha scelto di non approfondire troppo le questioni sociali…

Sì, già dall’inizio con lo sceneggiatore sapevamo che sarebbe stato un film di genere, quindi non un documentario sulla guerra né sui problemi delle Banlieues. Non sono un regista descrittivo, non mi interessa. A volte poi me ne pento, dico, forse dovrei farlo di più. Proverò a farlo la prossima volta. Siamo partiti dalla realtà ma cammino facendo ci siamo resi conto che ci interessava di più restare sui personaggi.

Perché proprio lo Sri Lanka?

Queste persone che fuggono da un dramma, non volevo che appartenessero a una cultura francese o comunque post-imperiale, volevo che venissero da molto lontano. Se prima si battevano per questioni politiche ora si battono per le cose che amano. E’ stato molto interessante e quando mi sono metto a lavorarci l’ho approcciato come se non fosse una sceneggiatura scritta da me. Questo mi ha dato molta libertà.

C’è stata molta improvvisazione?

Sì, lo faccio regolarmente. Cambio la sceneggiatura mentre lavoro. L’80% di quello che ho girato fuori sceneggiatura è stato integrato nel film, ed era un piacere tutte le mattine incontrare gli attori, c’era tutto un sistema di traduzione e cercavamo di sedurci, proprio per il fatto che io non comprendevo completamente la loro lingua, dunque quello che stavano recitando. E’ stato appassionante.

Pensa che sia un film che parla anche della Francia?

Non da un punto di vista obiettivo. Sono un paio di sguardi sul Paese.

I protagonisti alla fine si installano in Inghilterra. Pensa che lì sia più facile l’integrazione?

Non saprei. Non conosco il sistema di integrazione inglese e anzi, forse nemmeno quello francese, così a fondo. Ma il personaggio femminile dice di voler fuggire in Inghilterra da inizio film e dunque non fa che soddisfare un proprio desiderio. Insieme alla Francia, Inghilterra, Canada e Australia risultano le destinazioni d’interesse più alto per i fuggitivi.

Lo considera un film minimalista?

Mi sono accorto che abbiamo rifiutato sistematicamente certi effetti, è un film modesto. C’è della musica ma non troppo presente. Non ho accettato niente che fosse sopra le righe. Non ho usato troppe steady-cam. Ho lavorato più sull’inquadratura.

E’ stato anche un problema logistico?

E’ un progetto che nasce quattro anni fa. Un tempo molto lungo, ma il fatto che ci fosse una selezione a Cannes ci ha obbligati ad andare veloce, quindi a pensare meno. E’ vero che è bene arrestare un attimo la macchina dei pensieri, però è stato anche faticoso.

Perché questo gusto per il senso della perdizione?

Perché la perdizione fa il cammino più lungo e dunque rende il tutto più interessante. Sono i personaggi che rendono il tutto più drammatico e narrativamente complesso.

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21 Maggio 2015

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